Ministero per i Beni e le Attività Culturali
SOPRINTENDENZA ARCHIVISTICA PER LA CAMPANIA
Giacobini e sanfedisti: la conquista del consenso
nel
1799 in Campania
La
mostra è dedicata ad uno degli aspetti più interessanti del periodo
repubblicano: la scoperta della politica e più precisamente l'affinamento delle
strategie del consenso. L'itinerario espositivo intende ricreare l'atmosfera, la
tensione ideale e politica del semestre rivoluzionario scegliendo il punto di
vista privilegiato delle tecniche della conquista del consenso, base primaria
dell'attività politica moderna.
La
censura della restaurazione ordinò i falò dei documenti del '99, pensando così
di disperdere il ricordo della straordinaria esperienza . Nonostante ciò,
facendo ricorso alle fonti archivistiche superstiti ed alla copiosissima
bibliografia[1],
si è cercato di ricostruire quelle che con linguaggio contemporaneo definiremmo
"strategie di marketing" dei
repubblicani e dei monarchici, dei giacobini e dei sanfedisti, operando certo
qualche semplificazione e forzatura, poiché non di fronte a due partiti
monolitici ci troviamo, ma a 2 orientamenti di massima, infinitamente variegati
all'interno. L'intento è quello di avviare, cogliendo l'occasione del
bicentenario, un nuovo cantiere di storia sociale, che raccolga quanto le
celebrazioni del bicentenario hanno permesso di scoprire e riscoprire sugli
eventi del 1799[2].
I
rivoluzionari del 1799 non si autodefinivano 'giacobini', preferendo il nome di
'patrioti', anzi il termine di giacobino fu inteso soprattutto come definizione
dispregiativa da parte delle forze reazionarie che soffocarono nel sangue la
Repubblica. E, a posteriori, non si può
non convenire con i patrioti del '99: il giacobinismo, teoria politica del
potere rivoluzionario oltre che fenomeno storico di portata europea, significò
innanzi tutto capacità di ricorrere alla mobilitazione delle masse popolari
come strumento di pressione politica. La conquista dell'egemonia della piazza,
le "giornate" parigine, furono il mezzo per imporre profonde svolte
politiche o per salvare situazioni disperate, e rappresentarono la capacità di
saldare il movimento urbano con quello contadino in una alleanza in cui
l'egemonia restava nelle mani della "Città". Tutto questo nel 1799, a
Napoli e nelle province, non avvenne mai e le parole di Gennaro Serra, duca di
Cassano, dal patibolo, di fronte alla folla in tripudio, lo testimoniano
drammaticamente: "Ho sempre
desiderato il loro bene e loro gioiscono della mia morte".
L'adesione
del Regno di Napoli alla coalizione contro la Francia rivoluzionaria aveva
imposto un grandioso sforzo bellico; la già compromessa situazione finanziaria
del Regno subì un vero e proprio tracollo nel decennio 1789-1799. La situazione
politica non era migliore: la congiura del 1794 e i successivi processi avevano
approfondito il solco tra la monarchia e gli intellettuali più dotati di
capacità critiche ed innovative. Tutto spingeva alla radicalizzazione dei
conflitti.
Teatro
delleroismo giacobino e dei massacri sanfedisti, il Novantanove diventa parte
essenziale della nascita di alcuni stereotipi che hanno agitato il dibattito
delle celebrazioni del bicentenario. Lesperimento repubblicano napoletano va
collocato nel contesto dellEuropa giacobina e poi napoleonica: ha alle spalle
le armi francesi e lesperienza ancora acerba della Grande Rivoluzione. Lo
stesso sanfedismo fa parte della grande jacquerie
antifrancese che, a fine anni Novanta, sconvolge l'intera penisola . Le sommosse
esprimono conflitti tra campagne e città, liti fra città e città, faide tra
clan familiari; nascono dal contenzioso tra ricchi e poveri, contadini e
feudatari, agricoltori e consumatori. Si spiegano in un clima inasprito dal
rialzo dei prezzi, dalla leva militare e dagli spietati saccheggi degli
eserciti. Il Sanfedismo inoltre trova origine nelle ferite di una stagione
riformistica tardo settecentesca, nel corso della quale lo Stato borbonico,
lottando contro abusi feudali e privilegi ecclesiastici, aveva finito col
mettere in crisi la tradizionale società paternalistica. Il risultato è la
delegittimazione della monarchia, della feudalità e delle amministrazioni
pubbliche.
Gli
avvenimenti del 1799 si collocano in un grande vuoto di potere; non stupisce
che, in queste circostanze, esploda la violenza di massa.
Mitica appare
anche la rappresentazione di una élite
intellettuale di spessore europeo ed isolata in patria. La Repubblica del 1799
è governata da avvocati, intellettuali e nobiltà cadetta , tre categorie che
rimandano a due caratteri specifici del Mezzogiorno: la tradizione giuridico
statuale e la questione della feudalità. E anche vero tuttavia che quella
stessa cultura dello Stato, che è un dato essenziale della storia del
Mezzogiorno e che contribuirà ampiamente a fondare lItalia unita, assai poco
riesce a diventare cultura locale diffusa (una considerazione che sembra
confermare la frattura tra élites e
popolo, o meglio le difficoltà di ceti dirigenti nellorganizzare in modo
efficiente la sfera pubblica). Tra la scienza giuridica napoletana e la cultura
politica generale esiste una distanza che non verrà mai colmata.
Lélite
giacobina del Novantanove, malgrado i suoi tentativi di addestrare alla politica
la città dei lazzari, non saprà superare quella passività che è fra le
caratteristiche più spesso richiamate a proposito della vicenda meridionale:
"E
un fatto che gli eventi del 1799 e del 1806 si svolgono allombra delle idee e
delle armi francesi, la cesura dellestate 1860 allombra di Inglesi e
Piemontesi, il 1922 allombra del Nord agrario-industriale, il 1943-1945
allombra degli Alleati e dei partiti settentrionali. Ed è probabile che come
in un circolo vizioso nella passività del Sud si rispecchi il ricorrente
carattere giacobino di alcune sue élite (da
Vincenzio Russo a Giorgio Amendola).
Il Novantanove mette in scena alcuni segni forti
dellimmagine del Mezzogiorno: statalismo, frammentazione dei poteri,
isolamento delle élites colte, violenza plebea
[3]"
Il movimento
repubblicano dovette soccombere, stritolato dalla reazione, soffocato dalla
politica dei francesi, ma le esperienze maturate in questo periodo, i quadri
formatisi nelle cospirazioni, nella lotta politica, nelle insurrezioni, nelle
galere, rappresenteranno un grande patrimonio ideale e di lotta, che significherà
molto per il periodo successivo e per tutto il corso del Risorgimento.
Studi e
ricerche recenti hanno dato risalto alle figure di fondo dei quadri ufficiali,
ai comprimari, alla moltitudine viva e senza nome che pure partecipò alla
vicenda rivoluzionaria e che la regina Maria Carolina, con la sua penna aguzza,
classificò sociologicamente"
Gli
alti ceti sono perfidissimi; la marina e l'artiglieria tutta cattiva; molti
uffiziali ed infinita nobiltà e saputelli, mezzi paglietti, studenti "[4].
Essi diverranno il nuovo ceto di operatori amministrativi e di intellettuali nel
corso del Decennio e spesso costituiranno il nerbo più resistente alla ventata
di restaurazione impostasi dopo la fine del regime napoleonico .
La periodizzazione che separa drasticamente e
scolasticamente Settecento ed Ottocento non deve certo far dimenticare la
resistenza inerte di una società come l'italiana che nessuna rivoluzione
profonda ha divelto dai cardini, deviandola dalla sua traiettoria. Ma non deve
comunque nascondere la produttività politica di questo periodo di crisi, ai
fini del successivo periodo storico: l'esperienza del triennio rivoluzionario
significherà infatti, anche per l'Italia e per il Mezzogiorno, qualcosa di
grande e di nuovo: sulla scena della storia compaiono nuovi soggetti politici,
che non si muovono soltanto per motivi contingenti o per necessità elementari
di sopravvivenza, ma concepiscono anche disegni di trasformazione della società,
del suo assetto politico e sociale.
Nel
dicembre del 1798, il re, sconfitto dall'armata francese nelle cui file
militavano patrioti napoletani esiliati, perpetra l'ultima rapina: il Tesoro di
monete d'oro e d'argento dei Banchi[5],
riposto in 78 casse, viene trasportato a Castel Nuovo per essere imbarcato e
seguire il Borbone nella fuga .
Centoquarantaquattro
giorni sono ben pochi per consentire un giudizio sulle capacità della classe
dirigente repubblicana. I documenti superstiti rivelano comunque l'attività di
soggetti politici capaci di concepire progetti di trasformazione della società,
del suo assetto politico e sociale, individuando nel feudalesimo, nell'ancien
régime il nemico principale da abbattere. La fase governativa repubblicana
risentì pesantemente della situazione politica generale, come testimoniano i
continui rimpasti ministeriali, gli infiniti comitati e commissioni, che
isterilirono i pur esili margini di manovra. Certo non giovò la disastrosa
situazione della finanza pubblica, che non consentì la soppressione dell'odiosa
'decima' istituita da re Ferdinando
La
stessa presenza dell'armata francese costituì certamente un problema per i
patrioti napoletani: pur se nutriti di cosmopolitismo rivoluzionario, essi certo
erano ben consci di quanto fosse sottile la linea di demarcazione tra guerra di
liberazione e guerra di conquista .
Ma era loro altrettanto chiaro che senza le truppe francesi nulla potevano
contro le forze della reazione: si trattava di scegliere tra i "Francesi come sostegno ad un programma di democratizzazione e
modernizzazione del paese ed una monarchia retriva in balia delle forze inglesi,
austriache e russe"[6].
I repubblicani napoletani non furono né sottomessi né complici, e tanto meno
ricevitori passivi di una rivoluzione importata, dal momento che la Repubblica
nasceva contro la volontà del Direttorio; il governo francese infatti nel 1799
avversava la nascita di nuove repubbliche italiane per il timore di riaccendere
la rivoluzione, proprio mentre in Francia si tentava di concluderla. Il 18
brumaio del generale Bonaparte è vicino.
Comunque
l'esperimento repubblicano (la rivoluzione in
vitro gelosamente sorvegliata dall'occupante francese) consente ai patrioti
di esercitare la funzione di organizzatori, elaboratori di un progetto
alternativo di società, che dia forma alle nuove esigenze attraverso il
rinnovamento istituzionale. Nessun ambito
del vivere sociale sfugge al disegno rivoluzionario
La caratteristica dell'azione di governo che vale la pena di
sottolineare è la grande attenzione per i problemi dell'assistenza -"l'indigenza è un bisogno che non soffre dilazioni" -,
attraverso l'erogazione di sussidi a volte concepiti come veri e propri
ammortizzatori sociali.
Certo una linea interpretativa propone un carattere
permanente del Mezzogiorno dItalia, un segno specifico del Sud nel quadro
italiano ed europeo: il carattere populista, nato ben prima del '99 e
continuato ben oltre i Borbone. "Questo
carattere, che è al tempo stesso ideologia e pratica sociale, si identifica
lungamente con lassistenzialismo dantico regime il pane di forni
pubblici, le elargizioni reali, gli apparati di festa e diventa poi elemento
di fondo del rivendicazionismo e
delle policies che confluiscono nella
questione meridionale otto-novecentesca. Si coniuga con fenomeni strutturali
quali il pauperismo e la polverizzazione dei
mestieri, la moltiplicazione dei circuiti di scambio e di ridistribuzione, il
parassitismo, la micro - corruzione amministrativa, le reti del crimine
organizzato. (
) della linea populista saranno poi protagonisti i governi
borbonici, la Sinistra liberale, i partiti di massa dellItalia repubblicana,
gli apparati ecclesiastici"[7]
Tra
i provvedimenti assistenziali della neonata repubblica, moltissimi hanno per
destinatari donne . Il contributo femminile alla rivoluzione non fu marginale,
eppure "libertà, eguaglianza,
fraternità restano sostantivi di genere femminile solo nei dizionari: il ruolo
delle donne nella breve parabola della Repubblica Napoletana è misconosciuto".
Le fonti per la storia delle repubblicane sono scarsissime: la repressione
realista, attraverso la Giunta di Stato riunita nel convento di Monteoliveto, ci
ha lasciato elenchi di "rei di stato" tra cui donne condannate alla
forca, alla mannaia, all'esilio, al carcere, alla penitenza in monastero.Il
dolore delle donne della rivoluzione durò per anni: oltre cento seguirono i
congiunti in esilio, altre persero tutti i loro patrimoni, qualcuna non resse al
dolore e preferì suicidarsi. Ma tutto questo dolore non fu senza frutto: esso
costituì la base per un più generale cambiamento dei costumi e dei
comportamenti e delle donne e degli uomini, come testimoniano i mutamenti
legislativi in materia successoria e matrimoniale, portati poi a compimento
durante il decennio
Sulle
donne della Rivoluzione Napoletana recenti studi hanno offerto al contempo una
narrazione partecipe ed incalzante degli avvenimenti ed una rassegna di
ritratti, vivaci e informatissimi, da Eleonora Fonseca Pimentel -la più nota delle "donne
di testa", le intellettuali vestite da uomo e con i capelli tagliati
"alla Bruta" - fino alle tre sconosciute donne in uniforme
repubblicana, morte a giugno nel forte di Vigliena. Le "patriotte",
con la sola eccezione del ruolo rivestito dalla Pimentel, son rimaste al di là
della linea d'ombra, poco note o perfettamente ignote; pur tuttavia esse furono
attive sin dalla fase delle prime congiure, negli anni 1793-94. Nessuna donna
riuscì ad attingere alla rappresentanza ed alla partecipazione politica, ma non
per questo - fossero esse aristocratiche, borghesi o popolane - le donne
restarono estranee agli sconvolgimenti del 1799.
Delle tantissime polizze, relative a sussidi, emesse
a favore di donne, particolarmente interessante è quella emessa a favore di
Francesca Alcubierre, la cui vicenda assume carattere esemplare. Figlia del
generale spagnolo Filippo e seconda moglie del capitano Francesco Bonocore,
strenuo difensore del castello di Ischia dagli assalti degli inglesi e per
questo impiccato, la Alcubierre sfuggì alla pena capitale perché incinta, ma
fu condannata a 10 anni nel carcere della Vicaria, dove le nacque morta una
bambina.
Per
completare, se pur sul versante realista, la partecipazione femminile agli
avvenimenti del 1799 non si può non far cenno alla regina Maria Carolina,
l'Asburgo giunta quindicenne alla corte di Napoli. Molto si è scritto sulla
sua avversione al partito ispanofilo, sui suoi rapporti con John Acton, sulla
sua amicizia con Emma Hamilton . Certo il suo furore reazionario - per la morte
della sorella minore Maria Antonietta, regina di Francia, - si accrebbe dopo la
fuga a Palermo, dove non si limitò a nutrire propositi di vendetta contro la
"nazione vile, corrotta ed egoista",
ma attivamente si adoperò ad assoldare capi briganti, promuovendoli al rango di
sostenitori della causa reale: Michele Pezza (detto Fra Diavolo), Sciarpa nel
Cilento, Pronio negli Abruzzi, i fratelli Mammone nella zona di Sora. Sono
grandissime le responsabilità di Maria Carolina nelle le stragi di stato
seguite alla riconquista del regno, nel "ripurgo
di più migliaia di persone"; non è certo possibile assolvere la sua
totale assenza di pietà, ma essa fu in parte determinata dalla convinzione che
la monarchia esisteva per diritto divino, che gli stati appartenevano ai
monarchi, che non esistevano cittadini ma solo sudditi, da punire senza scampo
quando attentavano ai diritti dei sovrani. Maria Carolina è il frutto
dell'assolutismo regio, ed i suoi limiti furono quelli di una intera generazione
di sovrani "incapaci di vivere il
loro tempo e cogliere le nuove idee, che parlavano di diritti del popolo, di
libertà ed eguaglianza"[8].
Ed è proprio alla penna di Maria Carolina, nelle lettere a lady Hamilton, che
dobbiamo una testimonianza della rivoluzione attiva al femminile, dell'esistenza
di "ribelli dei due sessi": "Lo stesso trattamento dei giacobini infami dovrà essere riservato alle
donne compromesse con la rivoluzione e tutto questo senza pietà".
Il
triennio rivoluzionario ha rappresentato il punto di accumulo delle
contraddizioni, latenti e manifeste, di una società di antico regime: questa
premessa permette di evitare l'errore di considerare la nascita di governi
repubblicani nelle varie località del regno di Napoli come effetto esclusivo
dell'avanzata dell'esercito francese. Nessun processo di centralizzazione
assolutistico era intervenuto a rinsanguare il vecchio stato dinastico: dietro
la vischiosità delle strutture di ancien
régime il nuovo si faceva strada a fatica. Attori nuovi e antiche
scenografie sembrano, a prima vista, perfettamente integrati, fornendo
l'immagine di una società ristagnante che alberga nel suo seno i semi della
dissoluzione. E non sarà l'impegno dei patrioti napoletani (ed italiani in
genere) ad impedire che la vecchia trama patrizia riemerga nell'Ottocento.
Il
crollo del vecchio stato, delle vecchie classi, rappresenta l'apertura di uno
spazio politico che rende possibile una nuova occupazione del potere: accelera i
tempi della trasformazione del ceto intellettuale in ceto di governo. I nuovi
governanti hanno la necessità di trovare alleati in quest'opera di
consolidamento del potere, sull'esempio dei
repubblicani francesi che avevano saputo ricorrere all'appoggio delle
plebi urbane e contadine. Ma le masse popolari del regno di Napoli, strette
nella secolare miseria, non sanno che la rivoluzione le riguarda.
Il
compito primario dei patrioti è quello di risvegliare "la
plebe assopita nell'ignoranza e nella schiavitù",
per indicarle i vantaggi che il nuovo potere può assicurarle. L'esigenza di
stabilire un rapporto con le masse popolari non è una semplice sensibilità, ma
si fonda sull'esigenza di appoggiare la forza e la dignità della democrazia
repubblicana su solide basi di massa.
Non
si tratta semplicemente di alfabetizzare il popolo, trasmettere ad esso una
cultura elementare, proporzionata alle sue capacità di comprensione, ma di
formare dei cittadini, di costruire costumi e mentalità organiche alle leggi ed
alle istituzioni politiche. Per sostanziare quest'obiettivo bisogna istituire un
sistema di educazione pubblica che va distinto dall'istruzione; questa si limita
a distribuire un sapere, l'educazione ha l'obiettivo di formare le coscienze.
Quest'idea diventa un luogo comune, fonda e giustifica l'introduzione della
propaganda istituita, concepita come iniziativa globale, riguardante tutti i
cittadini, avente lo scopo di orientare le loro passioni, d'introdurre momenti
formativi in senso positivo e d'indicare i nemici da battere.
Il
triennio 1796-1799 colloca in primo piano il ceto degli intellettuale moderni,
di coloro che creano le opinioni, laicizzano i comandi sociali, promuovono le
mode, stabiliscono un legame tra produzione culturale e azione politica.
L'intensa attività progettuale dei patrioti italiani prende corpo negli scritti
e nei dibattiti assembleari, per ribadire ovunque la necessità di riempire di
contenuti concreti, d'imprimere una spinta operativa a quella che rischia di
rimanere una pura affermazione di principio. Ritagliare un abito morale per
ciascun cittadino significa sottrarre le masse popolari ad un destino secolare
che le ha condannate a rappresentare la folla, senza volto e senza identità.
Saranno i costumi, le abitudini, gli strumenti mentali nuovi a fondare realmente
la repubblica; l'educazione è realmente lo strumento di questa operazione
destinata a strappare le nuove leggi dal regno della teoria, a tradurle in realtà,
in vita quotidiana.
Ma
se l'educazione è il campo in cui più chiaramente si manifesta l'impegno
politico della classe dirigente, quest'attenzione puntuale, insistente ne fa
anche il luogo in cui vengono alla luce i timori per la labilità dei risultati
raggiunti, per la loro reversibilità sempre in agguato. L'educazione, nella
funzione che la rivoluzione le ha assegnato, è lo strumento capace di sottrarre
al ritmo incalzante dei giorni il rischio del cambiamento, del ritorno
all'antico.
Educazione
ed istruzione si pongono l'una accanto all'altra nel piano complessivo volto a
cancellare i segni della superstizione e dell'ignoranza perpetuati ad arte
dall'antico regime; ma l'una si differenzia radicalmente dall'altra.
All'educazione è riservato il campo delle passioni, dei sentimenti, dell'anima,
dell'immaginazione da cui restano escluse le facoltà intellettuali, gli
strumenti di analisi il cui sviluppo può scaturire solo da unistruzione
impartita sin dalla più tenera età. Lazione politica si rivolge al popolo adulto, avvolto nelle nebbie dei
pregiudizi e dei costumi distorti: ha bisogno quindi di una educazione
permanente (concetto questo di straordinaria modernità!).
In
definitiva l'obiettivo della pedagogia rivoluzionaria è quello di sciogliere il
nodo intricato delle passioni, degli impulsi dell'anima, delle affezioni
violente e caotiche. Le volontà contraddittorie ed elementari che si proiettano
in azioni incontrollabili, debbono confluire nell'universo ordinato delle virtù
e dei costumi repubblicani; ma questa trasmissione per così dire verticale di
valori e norme di comportamento non fa appello alla ragione ma ai sentimenti,
proietta l'immagine di una coscienza popolare formata, diretta, regolata, tutto
sommato ricettiva.
Il
ricorso ai sentimenti, all'immaginazione, in un'epoca in cui la politica sta
diventando politica di massa, propone il problema dell'organizzazione del
consenso in termini moderni. Il nuovo potere deve assicurarsi il controllo dei
mezzi che formano e guidano l'immaginazione collettiva, deve tradurre in oggetti
che s'impongono all'attenzione, in immagini che destano stupore, in grandi
spettacoli ed emozioni profonde, il modello formativo del cittadino virtuoso. A
questo fine si indirizzano gli sforzi della classe dirigente repubblicana nella
ricerca di un linguaggio e dei modi espressivi che rendano assimilabili i
principi rivoluzionari; la necessità di ampliare il consenso si esplicita in una propaganda multiforme, che un
contemporaneo descrive ironicamente:
"Si
veggono le mura della città foderate di Leggi, Controleggi; Sacrileggi,
Proclami, Avvisi, Inviti e mille altre carte che si vanno vendendo per la città"[9]
Una
delle caratteristiche della propaganda in italiano è l'uso di un linguaggio
aulico, denso di riferimenti neoclassici, tutto sommato retorico e completamente
estraneo a chi non partecipava della stessa cultura.
La
propaganda in italiano accentua fortemente i motivi ideologici, fondandosi su
parole polisense ed ambigue come Libertà, Eguaglianza, Popolo (sempre opposto a
Tiranno), parole che se contenevano valori emotivi per gli oratori ed un
pubblico colto ( già consenziente) restavano prive di significato quando erano dirette ad un pubblico diverso, incerto ed addirittura
ostile, per convincerlo all'adesione:
"Dolce
libertà gradita, depositata tra le mani dell'uomo nel campo Damasceno, e
sanzionata religiosamente dalla provvida natura, legittima amorosissima
Genitrice. Empi, profani, e ladroni tutti quelli che ardirono d'invocarla a noi
sotto lo specioso protetto del trono"[10]
Ed ancora:
"La libertà, questo nome tanto aborrito da' Tiranni, non è una cosa
vana e chimerica: essa è una Dea, la quale con una mano tiene il codice delle
leggi, con l'altra il pugnale vindice dei diritti dell'uomo, e co' piedi
calpesta gli scettri e le corone dei Re."[11]
I discorsi si modellano sempre su un codice retorico precostituito, dotato di un
repertorio figurale neoclassico, con moduli linguistici stereotipi, estranei ed
incomprensibili per un uditorio popolare:
"Coloro
che hanno sofferto la persecuzione del tiranno per amore della libertà
parleranno di essa con il tuono di Demostene e veglieranno per essa con la
fermezza di Bruto (
). Impareranno dai maestri del vivere libero. Bruto giurò
lo sterminio dei Tarquini (
), Licino capo della sedizione e della ritirata fu
uno dei primi tribuni (
), l'esempio più feroce del patriottismo."[12]
Era
per lo meno ingenuo sperare di alleare il popolo al governo repubblicano,
proponendo, sotto forma di ritornello, i principi rivoluzionari:
"Adunque
cittadini, siam liberi ed uguali: non ci stanchiamo mai di ripeterlo. Siam
liberi ed uguali: dimentichiamo i nostri servili ferri. Siam liberi ed uguali:
onoriam la natura che sì ci ha fatti (
) Siam liberi ed uguali: spargiam di
fiori l'augusta Repubblica Francese [
] Siam liberi ed uguali: amiamoci come
fratelli"[13]
Particolare
interesse riveste al contrario la valorizzazione del dialetto come strumento
privilegiato della propaganda popolare. Vale la pena di sottolinearlo perché la
propaganda in dialetto evidenzia un carattere originale del movimento
democratico italiano, e meridionale in particolare, che si differenzia
dall'esperimento francese dove la repressione del dialetto conduceva le masse
all'uso di una lingua estranea, costringendole ad una sorta di esilio
espressivo.
Non
così a Napoli, dove l'adozione della propaganda in dialetto fu determinata dal
riconoscimento della separazione linguistica esistente: infatti alla fine del
Settecento la diffusione dell'italiano aveva avuto una certa diffusione presso i
ceti medi (che fornirono il personale politico della Repubblica Napoletana),
mentre esclusivamente dialettofoni erano il sottoproletariato urbano e la massa
di artigiani, bottegai, piccoli contadini, vale a dire i 3/4 della popolazione
del Regno. Sin dal 5 febbraio, la Fonseca Pimentel aveva scritto sul suo
giornale:
"Molti
zelanti cittadini pubblicano anche ogni giorno delle civiche ed eloquenti
allocuzioni dirette al popolo; sarebbe però da desiderarsi che se ne
stendessero alcune destinate a quella parte di esso che chiamasi plebe,
proporzionata alla costei intelligenza, e ben anche nel costei linguaggio"
E nel numero successivo aggiungeva
"Finché
dunque la plebe, mercé lo stabilimento di una educazione nazionale non si
riduca a pensare come Popolo, conviene che il Popolo si pieghi a parlar come
plebe. Quindi ogni buon cittadino, cui per la comunione del patrio linguaggio si
rende facile il parlare e 'l commischiarsi fra lei, compie con ciò opera non
solo utile, ma doverosa".
Programmaticamente
l'adozione del dialetto è considerata transitoria, strumentale per il
conseguimento di quel consenso iniziale su cui poi potrà fondarsi il vero
processo educativo, cioè appunto condurre la plebe a pensare come popolo,
trasmetterle, almeno in parte, la cultura di cui partecipano gli oratori[14].
L'adozione
del dialetto comporta, oltre che una specificità linguistica, una selezione dei
contenuti da trasmettere. In molti casi si hanno esempi di argomentazioni
costruite premeditatamente per il pubblico specifico cui sono dirette, non
accettabili da uno diverso, argomentazioni che l'oratore stesso, molto
verosimilmente, non ritiene obiettive.
Si
veda ad esempio l'utilizzazione di Eva per screditare la classe delle donne, per
poi inserirvi la regina Maria Carolina:
"Tutte
sanne ch'Adammo se nzoraje e lo Signore le dette pe' mmogliera la sie Eva, e pe'
farele volé bene nfra lloro, la cacciaje da dinto a 'na costata de lo padre
Adamo. Ma che bolite che ve dico! 'sta mogliera fuje 'na femmena mmalora, e bene
a dicere ca t'aveva da fa la scasazione de lo marito e de tutto lo genere umano
(
) E ba' dì bene de le femmene! E comme, bene mio, si da la primma femmena
de lo munno avimmo accommenzato a passà guaje! E comme maje nce poteva fa bene
la regina, ch'era femmena? Essa è stata pe' nuje 'n'auta Eva"[15]
Evidentemente,
in un discorso che non avesse come destinatario il popolo, la condanna della
regina si sarebbe giustificata con tutt'altri argomenti; ma nella propaganda in
dialetto sono predominanti le argomentazioni analogiche ed emotive.
Come
argomento di autorità per confermare certe asserzioni, ci si serve delle
autorità popolari e dei proverbi: il proverbio, in particolare, rimanda al
sapere dell'uditorio e lo costringe ad accettare le conseguenze che derivano
dall'enunciato. Ad esempio, per convincere il popolo a mantenere la calma, lo si
minaccia con un proverbio:
"E
pensammo e tremammo, ca si non nce stammo quiete, riesce lo mutto c'appriesso la
guerra vene la carestia! Avite 'ntiso? Si non nce stammo quiete, appriesso la
guerra vene la carestia"[16].
Il
mutamento di codice linguistico comporta anche un mutamento delle figuralità:
scompaiono gli esempi tratti dalla storia greca e romana, incapaci di essere
comprese e di suscitare emozioni. Si smette di qualifica la regina Maria
Carolina come "Messalina" e
le si attribuiscono appellativi meno colti ma più incisivi sul tipo di "Malafemmina", "Ciantella",
ecc. Il re Ferdinando ,
definito dalla propaganda in italiano "molle
Sardanapalo" viene costantemente definito "Maccarone"
(con la variante di "Maccarone senza
pertuso"), "Ciuccio",
"Nzallanuto" aggettivi
comunemente usati in senso di scherno:
"Che
prejezza 'nzicco 'nzacco
che fortuna o che contiento
Eè arrevato lo momiento
de la nostra lebertà
E' fijuto lo Teranno
la Squaltina, la Ciantella
s'hanno rotto la nocella
so' squagliate 'mmeretà.
[
]
che doje piezze d'archetrave!
Lo menisto e la Mogliera:
da no 'mpiso e na 'mpechera
vi che 'nzierto se po fa!
[
]
Isso è Ciuccio e 'nzallanuto,
essa è Birba e Pettolella,
nfra la vrasa e la tiella
stamme frische 'mmeretà!
[
]
Co doje botte, a cauce 'nculo,
votta, fuje, se so 'mmarcate:
li Franzise so arrevate
torna mo: che buò turnà?"[17]
I
fogli di propaganda in dialetto si avvalgono, inoltre, di uno sfruttamento
intensivo quanto elementare della ripetizione, che sembra favorito dalla più
ampia persuasività del dialetto rispetto alla lingua italiana[18].
Oltre a favorire l'adesione emotiva del pubblico, il susseguirsi quasi ossessivo
di nozioni pressocchè identiche rappresenta una forma embrionale di
persuasione occulta, poiché evitando il confronto diretto, insinua in
maniera indolore le idee propagandate. L'esempio dell'invettiva contro la solita
regina Maria Carolina è significativo:
Carolì, si te stive ,'at'anno
quanta cose volive vedé;
sì
ffojuta, già tutte lo ssanno,
statte bona, e covernate.
[
]
Co l'Angrese faciste a l'ammore,
e se steva ogni juorne co te;
te scoprette pe furba de core
statte bona, e covernate.
La matina, lo juorno, la sera
Galeota veneva da te,
ma si
pazza, sì bota bannera
statte bona, e covernate.
Se credeva ca jere costante
Sì, l'ammico moreva pe te
Po te
vide appricata co tante
statte bona, e covernate.
[
]
Co li puoste de la farina
Era ognuno gabbato da te,
nce l'haje fatta accossì Carolina
statte bona, e covernate.
Ogne juorno na gran lebberanza
Se faceva ntesta de te
E accossì te jenchive sta panza
statte bona, e covernate.
Carolì è fernuto chill'anno
Ch'era ognuno gabbato da te;
ma se sape, sì chiena de nganno
statte bona, e covernate.[19]
La
propaganda in dialetto, partendo da valori affettivi in cui il pubblico popolare
si riconosce pienamente, accomuna l'oratore agli ascoltatori, provocando quel
fenomeno di appartenenza al gruppo che la propaganda in italiano non riusciva in
alcun modo ad ottenere. Si giustifica così il frequente ricorso a espressioni
tipiche, che hanno un contenuto affettivo-emotivo: "na
chiacchierata all'uso nuosto", " a lengua napoletana" e simili, che hanno lo scopo di creare una
complicità preliminare e di influenzare favorevolmente il pubblico.
Il ricorso alle convinzioni popolari, alla superstizione, sembra smentire l'intenzione di liberare dall'ignoranza e dai pregiudizi il popolo, mostrandogli la luce della ragione: ma tale ricorso, come per il dialetto, è ritenuto puramente transitorio. Ed è proprio il carattere strumentale della propaganda dialettale che testimonia della concretezza delle preoccupazioni politiche che l'avevano ispirata, costituendo perciò un potente argomento contro la pretesa illuministica distanza dalla realtà attribuita ai patrioti repubblicani: essi al contrario nella loro realtà avvertirono l'urgenza di radicarsi profondamente.
Piuttosto
si deve osservare che i contenuti della propaganda in dialetto restano gli
stessi di quella in italiano; ritorna il tema della libertà che non deve
sfociare nella licenza:
"Lo nomme lebbertà ,'ha avuto niente
Maje che spartire co la sfrenatezza,
e ccà nziemmo confonnere le ssiente.
S'è levata a lo Vizio la capezza,
le pparole, li scritte e ll'aziune
fann'arriccià li pile pe schifezza"[20]
E la definizione dell'eguaglianza non va oltre il suo
valore giuridico:
"Lo povero e lo ricco songo eguale, ogn'uno potrà dì lo fatto sujo, e
che bolite cchiù?"[21]
In definitiva
anche la propaganda in dialetto meglio concepita non riuscì a rompere la fitta
barriera di incomprensione che divideva le classi povere dai principi di libertà
ed eguaglianza. Sarebbe occorso ben altro: una decisa azione di governo, tesa a
migliorarne le condizioni di vita, a diminuire i gravami, a risollevare le
manifatture e l'artigianato, a facilitare l'accesso
alla proprietà o alla libera conduzione della terra.
Proprio il richiamo alla concretezza dei benefici
suona da monito per i governanti:
"Vì ca (
lo popolo) quanno sta chino co la panza mme sentarrà chiù meglio, ca si sta
dejuno le farrimmo chiù male che bene. Vuje già mme ntennite. Ve lasso co lo
buono jorno e ve dico Salute"[22]
Contemporanea,
ma nascosta, si sviluppa per tutta la durata della Repubblica la propaganda
realista. Testimonianze della sua esistenza ci vengono dai giornali e dai fogli
volanti, che continuamente scoprono congiure o ammoniscono che la serpe realista
cova nel seno repubblicano.
Il carattere clandestino di questa propaganda ne determina la diffusione orale, e conseguentemente le difficoltà, per non dire l'impossibilità quasi assoluta di reperire materiale documentario. Ma alla caduta della Repubblica un vero e proprio torrente di sonetti, odi, professioni di fede realista, si affigge alle mura, si stampa sui giornali, si dedica ai sovrani per riconquistarne gli antichi favori. Tutta questa produzione rivela con immediatezza il suo carattere apologetico. Non a caso sceglie un linguaggio aulico e prezioso, forme stilistiche e metriche ricercate, una morfologia cioè adeguata alla maestà dei destinatari:
"Ai fedelissimi vassalli di S.M. FERDINANDO IV
Re delle Due Sicilie
Sonetto
Tergi Fedel vassallo il pianto, altero
Vanne, che 'l pianto tuo produsse effetto:
tornò la pace ad albergarti in petto
FERNANDO ritornò al suo impero.
La Legge, il Culto ed il dover primiero
Riacquistaro il lor natìo ricetto;
il tuo onor non si credea negletto,
Percorre alfin l'antico suo sentiero."[23]
Solo in maniera mediata è possibile ritrovare degli intenti propagandistici in questi documenti; tuttavia essi possono fornirci le fonti di ispirazione di quella che doveva essere stata la propaganda clandestina durante la Repubblica.
Uno dei temi ricorrenti è l'insistenza sul carattere traviato , deviante dell'esperienza giacobina; le descrizioni del regime rivoluzionario e del suo personale politico scivolano inevitabilmente nelle calunnie più velenose o nell'elencazione di perversità mostruose:
"Traditori iniqui e rii
Eran tutti i Giacobbini
Eran tutti Assassini
Chi vi è che non lo sa?"[24]
Lo stesso aspetto esteriore, la foggia dei capelli e
dei vestiti dei patrioti diventano simbolo di devianza
"Tutti fanno i militari
Si stracciarono i collari (
)
Si recidono bel belli
Uomin donne li capelli
Dimostrando in tal maniera
Che eran degni di Galera"[25]
La repentina trasformazione dell'aspetto assume un certo protagonismo nella rappresentazione della sconfitta dei rivoluzionari; l'improvvisa sparizione dei capelli ricci, dei baffi, della barba, dei pantaloni repubblicani, suscita l'irrisione dei vincitori:
"Addò è ghiuta chell'aria smargiassa
Chille ricce, li mustacce e li barbette
E chille cauze a brachette?"[26]
Ed i penosi tentativi di travestimento offrono il destro ad impietose rappresentazioni della caduta della Repubblica:
"Chi spennava lo pennacchio,
chi la nocca se sceppava,
la mentura chi stracciava
pe' non farsela vedè.
Chi la zazzera s'alliscia
Chi se mette lo codino
Pe' non farse Giacobino
Priesto priesto scommeglià!
(
)
Cierte po' pe sta da fora,
e non esse canosciute,
le bedive stravestute
pe' ste chiazze cammenà.
Chi facea lo servetore,
chi facea lo tavernaro,
chi vestuto monnezzaro
se credeva de scappà"[27]
Seppur con i toni della letteratura celebrativa e d'occasione, i documenti dei realisti ci offrono un altro elemento che dovette essere il cavallo di battaglia della propaganda clandestina: il governo giacobino è fonte di ogni malanno, ma soprattutto della miseria e della penuria alimentare. Lo scopo era evidentemente quello di indirizzare il malessere popolare verso il governo repubblicano, accentuando l'appello ai bisogni elementari delle masse, calcando i toni del disagio conseguente alla guerra ed alla invasione francese.
I giacobini
"pazzi, scellerati
ci hanno tutti assassinati;
libertade ed eguaglianza
ci hanno tolto la sostanza
ed in mezzo a tanto imbroglio
manca carne, cacio ed oglio"[28]
Ed ancora
"Eguaglianza e Libertà
Libertà ed Eguaglianza
Tippi, Tappa questa panza
Io ancor mi sento far"[29]
Nei
componimenti in dialetto, all'immagine del giacobino invasato, scimmia dei
Francesi, si sostituisce quella del repubblicano
longa manus di una Francia avida di denaro, che ricompensa lautamente i suoi
complici
"Dimme na cosa Giacò, che Dio te scanza d'ogne bene, nun si stato tu la
causa di tutto sto mmale? Nun fuste tu chillo, ca te faciste veni lo prodito de
chiammà cà dinto chilli brutte mammmalucche (
) assassine pare e cumpagne
tuoje, che te puozze rompere lo cuollo tu e lloro? Non t'haje fino a mò
pigliati li denari da chille p'aprirete buono sto cannarone? (
) Nun si stato
tu chillo ch'a botta de fraude e tradimiente le faciste trasì cca dinte (
)
consignaste mano a chille lo Regno, ch'era roba de li muorte tuoje.(
) T'arricuorde
quanta cavaliere e galantuommene faciste addeventà pezziente [ e mentre i
Francesi ] scolavane le boccie di vino, e d'acquavita come se avessero vippeto
acqua fresca, e chille poverielle vedevano e schiattavano? (
) T'arricuorde
che t'auniste nzieme co lloro, e accomenzastevo co la tassa de li denare,
levanno l'essere e la vita a nuje poverielle? (
) Chesta era la Prubbeca, che
bolive mettere mpede (
) vì che bella lebertà! (
) Ve credivevo ca Dio
dormeva, e ca nuje non tenevemo nisciuno pe nuje: L'avite sgarrata. Fora, fora;
uffe llà, schiattate e crepate"[30]
Nella propaganda in dialetto spesso la raffigurazione della Repubblica e del suo personale politico perde i caratteri del demoniaco, per trasformarsi nell'espressione del lusso più sfrenato, dello sfarzo ostentato e costruito sul sangue di un popolo prostrato. E' un'immagine che tende ad alimentare la tradizionale avversione popolare nei confronti del potere costituito, considerato estraneo e nemico, o quanto meno fonte di diffidenza. Il messaggio, che oggi si definirebbe 'qualunquista', viene lanciato con ogni mezzo, anche sotto le spoglie del ritornello popolare, che tradisce però la sua origine letteraria e colta attraverso la metrica ricercata:
"Trariture, andate in giù
Site mpise;
Nun putite arrubbà chiù"[31]
Questa spinta alla diffidenza verso ogni tentativo innovativo ha un preciso significato politico: è un invito al rimpianto del tempo perduto. Alimentare l'immagine che il popolo ha di sé stesso - merce di scambio e territorio di rapina dei potenti - tende a confinarlo in un rapporto paralizzante con il potere stesso. L'alternativa si pone quindi tra il salto nel buio della rivoluzione o il rimpianto per le antiche forme del potere a cui si è già abituati, e che nel ricordo hanno ormai perso tutte le asprezze che la realtà quotidiana presenta invece tangibili.
La speranza del riscatto viene allora affidata al sovrano, l'autorità affettuosa e paterna che corre in soccorso dei suoi figli, castiga i delitti compiuti contro il suo popolo. Le invocazioni accorate dei popolani sulle barchette, che attorniano la nave del Borbone vittorioso ("Vulimme vedè Tata nuosto") testimoniano di un legame di adorazione che, pur in certe manifestazioni di fanatismo, non deve trarre in inganno. Il re, agli occhi del popolo, non è responsabile delle vessazioni patite in regime monarchico: sono stati i suoi amministratori che tradendo la sua fiducia hanno oppresso il popolo. La sua unica colpa è stata quella di disinteressarsi temporaneamente del governo, per dedicarsi alla caccia ed alle donne. Il volto oppressivo è stato piuttosto quello dei baroni vessatori dei contadini nelle campagne, o quello dei commercianti dissanguatori nella città.
Così la logica interna dell'insorgenza contro i governi repubblicani si rivela ispirata dalla sostanziale identificazione dei vecchi oppressori con i nuovi:
"Signò, mpennimmo chi t'ha traduto
Prievete, muonace e cavaliere!
Fatte cchiù cca e fatte cchiù llà
Cauce nfacce a la lebertà
E sona, sona la Carmagnola!
So' de li cunziglie
Viv' 'o re cu la famiglia!
[
]
Maistà,chi t'ha traduto?
O stommaco 'e cane ch'hanno avuto!
Songo 'e principe e 'e signure
Songo state 'e cavaliere
Te vulevano prigiuniere!"[32]
L'assenza di tangibili segnali di cambiamento, di reale mutamento delle proprie condizioni di vita, hanno fatto scattare l'equazione tra giacobini e signori."Chi tiene pane e vino / ha da essere giacobino". La feroce persecuzione dei giacobini, lo scherno che accoglie la messe di impiccagioni, ispira macabre ballate, la cui violenza è giunta intatta fino a noi:
"A signora donna Dianora
Che cantava ncopp' o triato
Mo abballa mmiezo o Mercato
Viova viva u papa Santo
Ch'ha mannato i cannuncine
Pe scaccià li giacubine
Viva 'a forca 'e Masto Donato
Sant'Antonio sia priato"[33]
Ma la violenza popolare non è solo il naturale sfogo di una rabbia a lungo repressa: il bagno di sangue che segna la fine della repubblica funziona da rito propiziatorio di un avvenire più felice del secolare passato: il mito della resurrezione dei poveri viaggia sui forconi della Santa Fede
"
A lu suono de la grancascia
Viva sempe lu popolo bascio
A lu suono de li tammurrielli
So resurti li puverielli
A lu suono de le campane
Viva viva le pupulane
A lu suone de li viuline
Sempe morte 'a Giacobine"[34]
Secondo
l'opinione dei patrioti repubblicani, la Chiesa e l'ancien
régime erano riusciti ad inculcare
negli spiriti i pregiudizi ed il fanatismo ricorrendo "alla truffa" ed
alla manipolazione particolarmente abile delle parole, dei segni, delle
cerimonie ed alla costruzione dell'universo simbolico che le circondava. Da qui
l'idea di combattere la battaglia contro i pregiudizi ed il fanatismo sul
medesimo terreno dell'immaginazione, della mentalità, dei sentimenti. La nuova
classe di dirigenti repubblicani comprese quanto fosse opportuno utilizzare la
straordinaria carica di persuasione posseduta dal clero e cercò di mobilitarlo
in proprio favore: a Napoli, fin dai primi giorni di gennaio la Fonseca Pimentel
aveva invitato gli stessi ecclesiastici, "i quali han già la pratica della persuasiva popolare", ad
impegnarsi nell'opera di propaganda.
Questo
desiderio di utilizzare la religione ed i ministri del culti come strumenti di
propaganda, testimonia la comprensione del presente che è propria della nuova
classe dirigente: la chiesa della fine del Settecento era infatti, nel
mezzogiorno, certamente l'unica struttura capillarmente radicata nella società
civile.
Dal
più sperduto parroco di campagna, al prete nuovo istruito in seminario, tutti i
sacerdoti avevano una grande influenza sulle masse popolari, particolarmente
permeabile alle loro argomentazioni; i nuovi ceti dirigenti si rivolsero quindi
agli "operai della vigna del Signore",
a quegli stessi pastori ecclesiastici che, nel decennio 1789-1799, dall'alto dei
pulpiti avevano dipinto con i più neri colori l'avanzata delle armi francesi,
insinuando la convinzione che i giacobini fossero sovvertitori della
religione, 'violatori' della proprietà e delle donne. Si trattava di utilizzare
la scaltrita capacità propagandistica, che le gerarchie ecclesiastiche avevano
raffinato in secoli di esercizio, per suscitare sentimenti di obbedienza, di
fedeltà e di subordinazione nei confronti del nuovo regime.
E
non fu senza esito: tra i caduti di piazza Mercato 13 ecclesiastici, tra di loro
un vescovo e sei professori dell'Università; decine di ecclesiastici o ex
ecclesiastici tra i rei di stato colpiti da confisca o da esilio.
Ma
il tentativo di coniugare principi rivoluzionari e principi religiosi
non aveva scalfito minimamente il sospetto popolare nei confronti di
francesi e giacobini, alimentato da una propaganda realista sapientemente
orchestrata e dotata di una capacità di comunicazione e convinzione
difficilmente eguagliabile.
L'insorgenza,
è storia nota, assunse fin dall'inizio coloriture accesamente religiose, di
guerra santa, soprattutto ad opera dei numerosi preti e frati che si misero alla
testa degli insorti. Nel '99 la chiesa raccolse i frutti
del sapiente mutamento di rotta attuato a partire dalla Controriforma:
con il Concilio di Trento il centro dell'impegno della gerarchia ecclesiastica
si era spostato dalle città alle campagne. La sollecitudine verso i
"rozzi", la divulgazione di una pietà facile ed esteriore, il fasto
delle processioni, la commozione delle prediche, erano tutti elementi destinati
a sedimentarsi in maniera massiccia nella sensibilità popolare: cominciò da
allora quell'intreccio di fame e di fede che assumerà forme ampie e tragiche
alla fine del XVIII secolo.
E'
importante soffermarsi sull'uso della religione come mezzo di trasmissione delle
parole d'ordine della rivoluzione: la propaganda di argomento religioso si
differenzia dalle altre per una serie di motivi che ne fanno uno strumento
privilegiato di comunicazione con le masse popolari, ostili alla Repubblica o,
nel migliore dei casi, indifferenti. In primo luogo essa ha una funzione
rassicurante, in quanto si pone immediatamente come tutela di valori
universalmente accettati e tradizionalmente radicati nella sensibilità
popolare, nel capovolgere l'immagine che di rivoluzione e rivoluzionari aveva
dato la letteratura antigiacobina.
I
numerosi dialoghi tra preti e popolani costituiscono un genere privilegiato
della letteratura propagandistica: la struttura dei dialoghi si avvale della
tecnica della domanda e della risposta, largamente usata nella prassi
ecclesiastica. La stessa tecnica viene anche riprodotta nei discorsi scritti,
affidata ai manifesti ed ai fogli volanti, con il vantaggio però per il
propagandista, di fissare preventivamente l'oggetto e l'ordine delle domande.
Lo
schema è classico: c'è un oratore che illustra i benefici del nuovo regime, ed
un interlocutore, di volta in volta scettico, ironico o incredulo, ma comunque
rappresentante per antonomasia del pubblico, del gruppo cioè di cui si intende
conquistare il consenso. Lo scopo di questa forma di propaganda è sempre quello
di rassicurare il pubblico, mostrandogli la validità e l'universalità di certi
principi e trasmettendogli, in definitiva, nozioni nuove attraverso le antiche.
Esemplare è, a questo riguardo, il continuo parallelo tra i concetti di libertà
ed eguaglianza repubblicana e la carità cristiana; o tra il buon cristiano ed
il buon repubblicano. Ma il ricorso alla religione serve anche, ed è importante
sottolinearlo, a respingere interpretazioni 'estremistiche della libertà':
"Contadino = A proposito, ora che ci sarà la libertà potremo fare
ognuno quello che vorremo?
Parroco = Adagio un poco! Questo non sarebbe libertà, sarebbe licenza,
libertinaggio" Si deve obbedire alle leggi"
Allo
stesso modo l'identità tra eguaglianza repubblicana e carità cristiana fissa
molto bene i limiti, rendendo impossibile l'abolizione delle differenze sociali:
"Contadino= Approposito, saremo anche tutti eguali, ed io sarò uguale al
signor conte, e molto più al fattore: non è vero?
Parroco= Sì e no. (
) la libertà consiste nell'obbedianza,
nell'essere uguale a tutti gli altri come cittadini, potendo aspirare a tutti
gli impieghi in forza del nostro merito, senza bisogno di essere benestante
(
) consiste anche l'eguaglianza nella certezza che la legge non può punire né
premiare più uno che un altro. Del resto poi l'opinione degli uomini non farà
mai eguale il debole al forte, il ricco al povero, il dotto all'ignorante, né
la legge stabilirà la piena eguaglianza tra il debitore ed il creditore; tra il
contadino, il servo ed il padrone"[35]
Oltre
al dialogo scritto, un altro genere preferenziale nell'ambito della letteratura
educativa repubblicana fu il catechismo, un genere letterario o, se si
preferisce, un antenato dei mass media,
che era passato dalla tradizione della propaganda cattolica post-tridentina alla
pedagogia politica della massoneria. Pur mantenendo la tecnica della domanda e
della risposta, non prevede però il contraddittorio, e rappresenta perciò il
superamento della fase propagandistica e l'avvento di quella apertamente
educativa, organizzata e controllata dal governo, diretta a prevenire eventuali
forme di dissenso attraverso una istruzione uniforme, generale ed il più
possibile aproblematica, sul modello della didattica cattolica.
A
Napoli, come altrove, si svolse un concorso per il testo del Catechismo
nazionale: uno dei concorrenti, Stefano Pistoja, opponeva il suo a quello del
vincitore, Onofrio Tataranni, perché "alla
portata del popolo basso", " adatto
alla sua maniera di pensare ed alla bassezza delle sue idee".
In
realtà conteneva gli stessi difetti di tutta la propaganda giacobina: astrusità
linguistiche ed affermazioni perentorie, che ne limitavano fortemente la
circolazione.
Particolare importanza riveste il catechismo composto da Michele Natale, vescovo di Vico Equense che pagò con la vita la sua adesione alla Repubblica Napoletana, in cui viene ribadita l'identità tra i principi repubblicani e quelli religiosi:
Domanda = Cosa è la libertà?
Risposta = E' la facoltà che deve avere ognuno di fare e di dire tutto
ciò che non è contrario alla legge.
D.= la libertà non consiste adunque nel fare ciò che si vuole?
R.= Se ognuno potesse fare tutto ciò che il suo capriccio gli detta,
non ci sarebbe governo democratico ma anarchia. Ognuno deve rispettare la legge,
e rispettandola fa ciò che vuole, perché esso stesso ha voluto la legge.
D. = Cosa è l'eguaglianza?
R.= E' il diritto che hanno tutti i cittadini di essere considerati
senza alcuna distinzione o riguardo innanzi alla legge, sia che premi o che
punisca
(
)
D.= Ma i beni non saranno comuni nel governo democratico?
R.= L'eguaglianza dei beni sarebbe contraria alla vera eguaglianza,
perché l'uomo
attivo ed industrioso dovrebbe dividere il suo travaglio coll'ozioso e col
dissipatore. Nel sistema dell'eguaglianza si devono adunque rispettare le
proprietà di ogni individuo"[36]
Gli esempi riportati mostrano da un lato lo sforzo che si compì per allargare la base del fronte repubblicano, dall'altro i limiti delle parole d'ordine, del linguaggio, dei contenuti che si intendevano diffondere tra le masse popolari; proprio sui temi della libertà e dell'eguaglianza appaiono più evidenti che altrove i timori di chi si proponeva di abbattere il sistema "dell'antico governo", ma non voleva o non poteva avviare un processo autonomo di lotta contro i vecchi centri di potere da parte delle masse popolari.
La
scarsa risonanza della propaganda clericale filorepubblicana deve probabilmente
attribuirsi, oltre che alla resistenza di parte del clero, all'improvvisazione
ed alla contraddittorietà della politica propagandistica, che da un lato
cercava di far accettare i principi repubblicani tramite la religione, anzi
identificandoli con i principi della religione stessa, dall'altro non impediva o
almeno tollerava una propaganda antireligiosa. Valga a titolo di esempio il
testo del Credo repubblicano:
"Credo nella Repubblica Francese, una e indivisibile, creatrice della
Libertà sociale e dell'Eguaglianza, credo nel Generale Buonaparte suo
figliuolo, unico difensore e nostro, il quale fu concepito da gran Spirito,
nacque da madre virtuosissima, patì sopra monti e colli, fu da tiranni
vilipeso, discese dal Piemonte, il terzo dì risuscitò nell'Italia, salì in
Mantova, ed ora siede alla destra del Gran Cairo capitale dell'Egitto, di là ha
da venire a giudicare i potenti aristocratici; credo nello spirito delle
Generalità Francesi e del Gran Direttorio di Parigi, la distruzione degli
Emigrati, di una remissione alla tirannia, la resurrezione del diritto
dell'Uomo, la futura pace, la Libertà, ed Eguaglianza. Amen"[37]
Caratteristiche
diverse ha la propaganda religiosa filo-repubblicana in dialetto: essa si carica
di valori affettivi; le premesse da cui muovono le argomentazioni degli oratori
si adeguano alle convinzioni popolari, ed affermano la tutela della continuità
di certi valori, assimilati dal popolo, dal governo passato a quello
repubblicano. Tipica a questo riguardo la spiegazione del Vangelo in dialetto:
le parole della Scrittura offrono un punto di partenza indiscusso, così come
nell'ambito del discorso potranno essere citate come argomento d'autorità, per
rafforzare enunciati difficilmente accettabili senza resistenze. In dialetto,
l'argomento religioso è usato indifferentemente da laici o da ecclesiastici, ma
è evidente che nel secondo caso la forza persuasiva ne risulta aumentata, sia
perché l'oratore è persona autorizzata all'esegesi dei testi sacri, sia perché
l'intenzione propagandistica non è più esplicita ma dissimulata sotto le forme
consuete della spiegazione del Vangelo o di altri discorsi istituzionali:
"
Puopolo mio bello, fatte ccà: facimmo na chiacchierata all'uso nuosto,
e bedimmo chi è Cristiano e chi Abbrejo marditto. Dice no Profeta dinto alla
Scrittura Sacra cheste parole: Propter injustitias transferuntur Regna de gente
in Gentem: oh! Mmalora! E chesta non è lengua nosta! Mo, mo, aggiate pacienza.
Chesto vene a dicere ( e lo ddice proprio Dio in Perzona pe bocca de chillo
profeta) vene a dicere, ca pe le contrajustizie passano li Regne de mano a mano,
de Gente a Gente, e da na nazione a n'auta. E bò dicere, ca Dio quanno vede che
se fanno le contrajustizie ch'avimmo ditte, leva lo Regno a na Nazione, lo passa
a n'auta. Ntennite? Ora venimmo a nuje (
)"[38]
Non
raramente si delinea la disponibilità della propaganda filorepubblicana a
deformare l'informazione, accettando di porsi sul piano della propaganda
avversaria pur di ottenere il consenso popolare. Per rintuzzare, ad esempio, gli
argomenti della propaganda reazionaria che dipingeva i Francesi come
sovvertitori della religione ed esortava alla resistenza armata assimilata a
lotta per la difesa della fede, i giacobini, invece di dimostrare l'infondatezza
di tali affermazioni controbattevano accusando di eresia gli Inglesi, alleati
della monarchia:
"L'Angrise, che roba songo? (
) Chisse songo vere aretece dichiarate da
la santa Chiesia da tanto e tanto tiempo e pe tanta cufecchie lloro che manco me
ll'arricordo; songo vere scommunicate, che pe' ghiusta regola nuje nun ce
potariamo manco parlà; e sapimmo ca se traseno dinto a lo sieggio o dinto a lo
tresoro quanno Santo Jennaro ha da fa lo miracolo, Santo Jennaro ngrogna, e
stateve buone! Addonca, pecchè nce volevano aunì co' l'Angrise, ca so' vere
aretece, e nce voleno fa accidere co' li Franzise che so' cristiane comm'a nuje?
'Nzomma, non se commatteva pe' la Fede, ma contra la Fede, pocca jevemo aunite
co' l'Angrise aretece contra li Franzise cristiane"[39]
Come si vede non si discutono le premesse della propaganda reazionaria e clericale, che pur sono false ed a cui sarebbe necessario rispondere che la guerra non ha nessun rapporto con la religione e la difesa della Santa Fede è solo un pretesto per mobilitare le masse; si sostiene invece che i Francesi non possono attaccare la religione perché sono essi stessi cattolici, mentre gli Inglesi non possono difenderla perché sono eretici.
L'intenzione
di risvegliare un consenso basato molto più su aspetti emotivi che razionali
diventa evidente quando l'oratore non esita a ricorrere al frasario popolare,
assumendone espressioni elogiative del tipo "guappe"
e "guappone" riferite ai
Francesi, che vengono inseriti così in una categoria di gente in gamba, in cui
rientra anche "chillo guappone de
Santo Jennaro".
Ma
l'incidenza di questa propaganda fu tutto sommata scarsa; essa naufragò
nell'impossibilità di dare una risposta concreta alle obiezioni insistenti ed
irriducibili, formulate dall'antagonista popolare nei dialoghi, o simulate
dall'oratore nei discorsi; obiezioni che riguardavano sempre la reale
consistenza dell'eguaglianza ed i vantaggi della libertà:
"
che bene a gnefecà Aguaglianza si uno magna quattro o cinco cose a
tavola, e n'auto sta jajuno?"
La risposta data dalla propaganda è invariabile: la ricchezza, non più dovuta ai privilegi di nascita, è ora motivata dalle capacità e dallo spirito di sacrificio di chi l'ha saputa conquistare. Il consenso del pubblico dovrebbe scaturire dal riconoscimento delle possibilità, aperte a tutti i poveri meritevoli, di diventare ricchi.
In
questo senso, tentando di coinvolgere un pubblico subalterno, e destinato a
rimanere tale anche in una società promozionale, con argomenti cui era
sensibile solo la classe emergente (borghesi, nobili non primogeniti, ecc.) la
propaganda in dialetto rivela sostanziali affinità con quella in italiano di
analogo argomento religioso. In definitiva essa non riesce a modificare la
diffidenza del popolo verso i giacobini, identificati con i ricchi ed i potenti,
sostanzialmente estranei alla cultura ed agli interessi popolari.
Ben
altri effetti doveva sortire al propaganda clericale controrivoluzionaria, che
per prima si era avvalsa del dialetto, e che usava argomenti assai più
elementari ed efficaci di quelli repubblicana:
"Sti
marijule mò vanno dicenno,
sti lupune vestute d'agnielle,
<<No tremmate, ca
simmo fratiello!>>
Auh! 'na sferra, e da' dinto a la panza!
Che mannaggia!
[
]
Cu la chiesa sti becchi curnute
Hanno fatto a chi cchiù scippa scippa,
e nisciuno le chiava a la trippa
'nu spuntone o nu punno de lanza?
Che mannaggia!
Che mmalora, de pazze che site!
Tutte chine de fagole e 'mbroglie,
arrunzate le figlie e le moglie,
manco a Dio portate crianza.
Che mannaggia!"[40]
La propaganda antigiacobina, riattivando le credenze
e le prevenzioni che aveva essa stesse create, doveva dare i suoi frutti
sottraendo il consenso delle masse alla nuova classe politica
La
regia dell'emotività popolare: simboli e feste civili
La
Rivoluzione Francese non inaugura semplicemente l'epoca del governo del popolo,
del rinnovamento radicale delle istituzioni politiche. Con la rivoluzione è la
stessa politica, in quanto arte di conquistare il consenso intorno ad un
obiettivo, che assume un nuovo stile. Conferirle una dimensione di massa è
infatti la molla che fa scattare il processo di dilatazione dello spazio da essa
tradizionalmente occupato. Accanto alla ragione, ora l'emozione, il sentimento,
l'immaginazione, la mentalità collettiva rientrano tutte in una sorta di
officina da cui dovrà uscire un uomo riplasmato sin nelle pieghe più nascoste
della sua umanità. Ma per un simile progetto la scuola, rivolta ai
giovanissimi, si presenta inadeguata ed insufficiente; essa deve essere
accompagnata dalleducazione permanente, dalleducazione degli adulti
Come
garantire il consenso attivo delle masse popolari, cancellando dalle loro
coscienze l'impronta che secoli di dispotismo vi avevano impresso? La
legislazione repubblicana poteva distruggere la costituzione dell'ancien
regime nelle sue articolazioni
esterne, ma non estirparne le radici che si erano alimentate nello spazio
nascosto delle anime e delle menti, nelle abitudini ostinate, nei costumi che
condizionano ed orientano gli atteggiamenti degli uomini, con un'azione segreta,
inconscia e perciò stesso inattaccabile. Al valore normativo della legge doveva
affiancarsi quello formativo dell'educazione nazionale che dappertutto, con
minore o maggiore forza, è espressione dell'esigenza di una riforma morale e
intellettuale del popolo.
Non esiste rivoluzione politica senza rivoluzione culturale, quest'ultima con scansioni e tempi suoi propri; nel 1799 la società politica ha accelerato improvvisamente i suoi tempi di trasformazione mentre l'allineamento delle coscienze, delle mentalità oppone ancora una resistenza tenace. Il problema è dunque quello di colmare questo dislivello, di amministrare saggiamente questi ritmi sotterranei, orizzontali, senza lasciare nulla al caso; è necessario ripercorrere il cammino delle coscienze, modellare il percorso che dalle impressioni conduce alle idee, impadronirsi dell'immaginazione per radicare nelle mentalità i valori che sostengono le istituzioni politiche.
L'ansia
della rinominazione di strade, l'uso reso obbligatorio delle coccarde,
l'innalzamento degli alberi della libertà, le feste civiche, la condanna dello
sfarzo, la foggia degli abiti, la lunghezza dei capelli, ecc., non rappresentano
aspetti marginali, ma al contrario, rientrano tutti nel vasto campo riservato
all'educazione:
"Niuna cosa è sì piccola che volger non si possa ad utilità della
repubblica"
Tra
le strutture pedagogiche fondamentali, in tutti i progetti di educazione
nazionale, compaiono le feste civiche, nell'accezione di festa come
manifestazione immediata e diretta del popolo. Rousseau aveva offerto una
critica feroce della corruttela e finzione delle feste dell'ancien
regime, vagheggiando al contrario le
feste del popolo, feste in cui il popolo fosse spettatore di sé stesso, dove
vedersi ed amarsi negli altri, sulle pubbliche piazze e senza lo sfarzo di
eccessivi addobbi. La festa quindi assume il carattere di commemorazione di eventi, di programma politico, di
esortazione civica.La festa rivoluzionaria rappresenta una rottura anche della
tradizione cinque- seicentesca della festa popolare, soprattutto con i
carnevali, che rappresentavano il tempo dell'infrazione e del disordine,
dell'infezione e del miscuglio pericoloso; la licenza, la burla, l'oscenità, i
lazzi erano i materiali del discorso carnascialesco. Ma la festa popolare
sfrenata aveva sempre avuto una funzione politicamente integrativa: la tensione
popolare doveva scatenarsi per qualche volta, per rientrare e ricomporsi nella
normalità dei giorni eguali della miseria.
Per i nuovi governanti repubblicani i carnevali e le feste popolari rappresentarono residui di epoche di barbarie e di ignoranza, contrarie anche all'ordine divino, fondato sulla successione di sei giorni lavorativi: la festa non può essere altro che commemorazione del tempo perduto oppure celebrazione del tempo storico.
Diventava impellente la necessità di riassorbire la festa all'interno del discorso educativo, di renderla anzi efficace strumento di propaganda: per essa il discorso educativo sceglierà un linguaggio intessuto di simboli, di segni, di allusioni al mito neoclassico. Nella festa rivoluzionaria l'educazione si riserva il campo delle emozioni, dei sentimenti e delle impressioni; essa vuole ispirare nuovi costumi, imprimere un marchio indelebile sull'animo popolare, istillare una fede incrollabile nell'autorità e nelle leggi; vuole - c'è la tentazione di dire - manipolare la coscienza popolare. I valori nuovi che ispirano la costituzione devono tradursi in linguaggio capace di conquistare l'immaginazione popolare:
"FIGLI
DELLA PATRIA
Le insegne degli assassini, degni ministri dei
fuggiti tiranni, sono state già consunte dalle fiamme. Possa così esser dallo
sdegno consunta nel cuore di ognuno l'infame loro memoria![41]
Più
delle parole i simboli sembrano in grado di mettere in moto questo processo: il
simbolismo più diffuso fu quello del fuoco come strumento di purificazione di
una realtà infestata dai germi della tirannide e sotto quest'impeto le
cerimonie di bruciamento dei simboli della tirannide si susseguono dappertutto,
regolate ed orchestrate da un cerimoniale denso di significato, come per i roghi
delle bandiere prese agli insorgenti:
"Domenica fu finalmente eseguita la pubblica festa
pel brugiamento delle bandiere vinte in varie azioni sugli insurgenti, e
si spiegarono la prima volta all'aura le bandiere donate dal Governo alla
Guardia Nazionale.
Intorno all'albero piantato nel largo del Palazzo Nazionale si alzava un
basamento di figura quadrilunga, destinato per l'allocuzione al Popolo, e per
incenerirvi le cennate bandiere [
] la parte inferiore era adornata di un
trofeo continuato in bassorilievo. Ne' due lati lunghi della superiore erano due
vittorie per parte [
] Nel centro sorgeva l'albero della libertà cinto ad una
certa altezza dei sei fasci consolari; ornato più sopra da fasce tricolori,
nelle quali leggevasi il sacro nome di LIBERTA' e dalle quali sporgevano in giro
lunghi rami di ulivo, di quercia e di lauro, e da mezzo ad esse la bandiera
nazionale; verso la cima l'un sull'altra a piccole distanze due corone civiche,
ed una trionfale, infine il beretto repubblicano sull'apice con diversi nastri
tricolorati, che sventolavano"[42]
Si
trattava di controllare quanto di inconscio, di sovversivo c'era in certe
autorappresentazioni popolari, di fornire al popolo una nuova immagine di sé
stesso, adeguata ai nuovi valori rivoluzionari.
E
la prima vittima di questa riforma sono le maschere del teatro italiano, via via
proibite nelle città italiane con il sopraggiungere della Rivoluzione. Il
Pulcinella che indossa la sacca bianca dei facchini e nasconde il volto dietro
un adunco naso a forma di becco gallinaceo, ha da sempre incarnato
l'inquietudine popolare, il sovversivismo latente che si ritagliava uno spazio
indipendente dall'ordine costituito, sguarnito di capacità di autocontrollo e
fomite di sovversione . Si delinea
un tentativo tutto moderno di suggerire al popolo il culto verso sé stesso al
di fuori di qualsiasi cornice cristiana, dinastica o carnevalesca: la nuova
politica cerca di mettere in scena la sovranità popolare.
Cosa questo significò per la Repubblica Napoletana?
Il
"Monitore napoletano" riporta la cronaca dell'innalzamento di un
albero della libertà:
"Domenica fu innalzato l'albero della libertà prima nella
Conciaria, poscia nel Mercato a spese di quei capo -lazzari. Il generale
Championnet a cavallo col suo stato maggiore, ed una deputazione del nostro
Governo si portò ad assistere all'uno ed all'altro. Al Mercato si trovò per
loro innalzato sontuoso palco, dove però indistintamente salì gran turba di
cittadini. La gran piazza, i vicoli che vi spuntano, tutti i balconi finestre
terrazze, che vi riguardono, erano zeppi di giojosa moltitudine di ogni età e
di ogni sesso. Una scelta orchestra rallegrò la funzione, ed il presidente
Laubert con bella popolar arringa rammentò al Popolo il suo Massaniello, e
spiegogli come la presente rivoluzione altro non è, che quello stesso che far
volle, e pe' tradimenti della Tirannia non poté eseguire Massaniello. Scelti
vini forestieri e dolci erano ai piedi dell'albero. Altri furono copiosamente
dispensati nel palco. Al generale fu presentato un canestro di colombi, de'
quali uno con uno scritto di ringraziamento della assicurata libertà; il
Generale fece dispensare gli altri, ritenne e conservò per sé quello solo.
(
) i Lazari ne' trasporti della loro gioia (
) accompagnarono a migliaia
alla propria abitazione in faccia al Palazzo Nazionale esso Generale, che ad
accrescere il giubilo, e la sontuosità della festa, fece loro gettare non
piccola quantità di monete"
Il nuovo
potere, nella sua ansia di rinnovamento totale, non sa sbarazzarsi del peso dei
vecchi instrumenta regni: le
imbandigioni, la distribuzione di monete fungono da risarcimento fittizio per la
penuria quotidiana, per la sottoalimentazione secolare. Ed il marchese de Sade,
a Napoli trent'anni prima, era stato cronista fedele delle feste borboniche:
"Assistetti (
) a una 'cuccagna', uno degli spettacoli più selvaggi
che mi fosse mai capitato di vedere: un enorme palcoscenico grossolanamente
addobbato, sul quale era stata ammassata una quantità impressionante di roba da
mangiare, polli oche e tacchini crocifissi con chiodi e che, con le loro
convulsioni, sembravano divertire immensamente la plebe in attesa dell'epico
momento destinato al saccheggio(
) cos'era tutto l'insieme se non il pretesto
per aizzare la selvaggia voracità di un popolo affamato? Se è possibile
giudica un paese dai suoi gusti, dalle sue feste e dai suoi divertimenti, quale
opinione ci si può fare di questo popolo affamato? Colpa del Borbone il quale
è convinto che soltanto simili svaghi possano
allontanare il pericolo di una rivoluzione"[43]
Con la sconfitta della Repubblica, i primi provvedimenti del governo restaurato furono volti tutti alla distruzione delle insegne e dei simboli della rivoluzione. Diveniva essenziale cancellare ogni segno della "peste giacobina", ridurla ad un tragico episodio, che era stato tuttavia incapace di intaccare il felice legame di fedeltà che saldava sovrani e sudditi.
Le insegne reali, le croci, i codini nobiliari riprendono il loro posto alla luce del sole, a simboleggiare che la tempesta rivoluzionaria è finita e torna la quiete monarchica. Si trattava in definitiva di restaurare l'antica trama di dominio sulle masse popolari, non più però inerti, ma risvegliate e sovreccitate dalla partecipazione agli ultimi, sanguinosi, eventi. La riattivazione dei vecchi canali di trasmissione del consenso era certamente prioritaria per il governo restaurato, ma a questo compito si aggiungeva la necessità di rendere la parentesi giacobina orribile nel ricordo popolare, vera e propria infezione demoniaca, sanata solo dall'intervento di Dio e del Monarca. Il giacobinismo, "mostro divoratore dell'Umanità", viene costantemente raffigurato nell'iconografia controrivoluzionaria con attributi demoniaci , rivelando così il carattere ferocemente diffamatorio di questa propaganda, mai critica riflessiva e puntuale, ma espressione di antigiacobinismo viscerale.
Il tema è sempre lo stesso: i giacobini hanno perso perché ladri, assassini, immorali. Non si tenta mai un giudizio politico del loro operato: la loro sconfitta è il meritato castigo per aver infranto le regole di un mondo ordinato da Dio.
L'intenzione diffamatoria sceglie, non casualmente, di mettere in ridicolo i simboli repubblicani: l'albero della libertà raccoglie una ricca messe di invettive in tutti i componimenti dedicati al sovrano restaurato:
"L'albero segno
d'Idolatria
Or di follia,
segno sarà
oppure
"Che credevivo di fare
Raccapriccio! In rammentare,
d'adorare un tronco stecco,
steril legno tutto secco
a che dico senza frutto
fronde e fior ci manca tutto,
e voi tutti in sua presenza
fate a quello riverenza."[44]
Né viene risparmiato il berretto repubblicano
"E la coppola sì rea
Che la palma la cingea
Che per vostra scemità
L'appellaste libertà"
Gli stessi temi si ripropongono con maggior forza
nelle invettive in dialetto: "st'albere
senza radice / sta coppola senza capa"
Compaiono gli intenti calunniosi nell'accusa di viltà
per la mancata difesa del proprio simbolo:
"Un tronco infame, insulso
alzasti con orrore
ma poi con disonore
si vide diroccar"[45]
Neanche le feste repubblicane sfuggono all'intento diffamatorio; esse vengono rappresentate come immondi festini, in cui ogni licenza era permessa:
"Posto l'alber ogni tanto
si ballava, si cantava,
ed ognuno si sfrenava
senza ombra d'onestà"
La funzione di sollecitazione del consenso delle
feste veniva presentata come inganno perpetrato ai danni del popolo:
"Sotto l'alber ogni tanto,
si faceva un festino,
e così il Giacobbino,
si credea di corbellar"[46].
Il rituale festivo, le danze intorno all'albero della libertà, venivano descritte come una gigantesca truffa intessuta di:
"false persuasioni [
] e di quei bugiardi simboli [
] cui prestar
doveasi da ognuno, con mimiche rappresentazioni, ubbidienza e rispetto"[47].
Ma il potere restaurato utilizza a sua volta le feste come rappresentazione del tripudio popolare per il ritorno del re:
"Ieri sera cominciò un triduo di lumi a Sant'Antonio con anfiteatro
fatto al largo di S. Lorenzo [
]; è accompagnata questa illuminazione dai
lumi ai balconi e finestre di tutta la strada, e banda di musica in mezzo al
largo[
] questa mattina si è fatta girare la statua del santo scortata da
guarnigione di realisti, i quali hanno preso il pennacchio verde e bianco; fra
essi si contavano otto monaci che precedevano armati di sciabola ma coll'abito
della loro religione, seguiva la banda con una pattuglia dello stesso corpo"[48]
La
coreografia liturgico - festiva inserisce nella processione, cioè nel percorso
solennizzato, ritmato da preghiere e cantici, i nuovi simboli (monaci con le
sciabole, realisti con i pennacchi) destinati a commemorare i più recenti
avvenimenti; ma soprattutto ad imprimere nella memoria popolare l'immagine del
trono e dell'altare, che da soli hanno sconfitto gli empi.
Tutta le letteratura reazionaria fornisce compatta l'identica versione: la riconquista del regno non era stata una operazione politico - militare ma una sorta di prodigio leggendario, che mescolava insieme la lotta di sant'Antonio con san Gennaro, la natura diabolica dei giacobini, la potenza magica del cardinale Ruffo e, non ultimo, l'intervento provvidenziale dello Spirito Santo.
I toni leggendari della narrazione costruiscono il mito della resurrezione monarchica dal contagio rivoluzionario; per le decine di migliaia di uomini delle provincie che avevano rappresentato il nerbo dell'armata sanfedista non cè posto in scena.
Non ci sarà castigo per le atrocità commesse durante l'avanzata controrivoluzionaria, ma non ci sarà nemmeno soddisfazione delle aspettative che avevano spinto quest'enorme massa umana a marciare sotto le insegne della Santa Fede.
[1] Fondamentale per qualsiasi lavoro sulla Repubblica Napoletana la poderosa raccolta curata da Mario Battaglini Atti, leggi, proclami ed altre carte della Repubblica Napoletana 1798-1799, Chiaravalle, Società Editrice Meridionale, 1983, 3 vv., in particolare per le fonti del presente lavoro cfr. le pp. 1891-2027.
[2] E' stato avviato, con un finanziamento della Regione Campania, un progetto di ricerca per la preparazione di un repertorio di fonti inedite del 1799 in Campania, che vede protagonisti giovani ricercatori coordinati dalla Soprintendenza Archivistica. Le fonti oggetto di indagine, oltre quella dell'Archivio Storico del Banco di Napoli, saranno prevalentemente comunali, ecclesiastiche e private.
[3] P. Macry, Napoli 1799. Giù le mani dalla rivoluzione in <<Corriere della Sera>>, 17/11/1998
[4] Lettera di Maria Carolina al cardinale Ruffo (8 maggio 1799) in B.Croce, La riconquista del regno di Napoli nel 1799. Bari, Laterza, 1943.
[5] Sulla situazione dei banchi cfr. R.Filangieri di Candida, I Banchi di Napoli dalle origini alla costituzione del banco delle Due Sicilie (1539-1808). Napoli 1940; F. Nicolini, I banchi pubblici napoletani ed i loro archivi. Napoli 1950; C. Albanese, Cronache di una Rivoluzione. Napoli 1799. Milano, FrancoAngeli, 1998, pp. 27-29.
[6] A.M.Rao, La Repubblica cit., p.25.
[7] P. Macry, Napoli 1799. Giù le mani dalla rivoluzione cit.
[8] G. Carleo, Un'austriaca cit., p.24.
[9] Satira contro i giacobini, tragicommedia rappresentata sul Teatro di Napoli, l'anno 1799, Napoli, s.d. in Atti, leggi, proclami cit., p. 1888.
[10] Orazione patriottica recitata in Napoli in occasione del glorioso innalzamento dell'Albero della Libertà, sul largo del Palazzo Nazionale, Napoli, 29 gennaio 1799 in Atti, leggi, proclami cit., p. 1937
[11] B. Gagliano, La fuga dei tiranni, in Giornale Patriottico della Repubblica Napoletana, dove si trovano poste in ordine tutte le più belle produzioni patriottiche, date finora in luce nei fogli volanti, Napoli 16 piovoso, in Atti, leggi, proclami cit.
[12] N. Neri, Carattere del patriota, Napoli, s.d. in Atti, leggi, proclami cit.
[13] Allocuzione al popolo Napoletano nello stabilimento della sua Repubblica, Napoli s.d. in Atti, leggi, proclami cit.
[14] L'adeguamento dell'oratore alla lingua dell'uditorio comporta il riconoscimento del sapere diverso di cui è portatore il destinatario; il mutamento di linguaggio non si risolve in una traduzione, poiché è impossibile servirsi delle argomentazioni tipiche del discorso celebrativo, richiedendo l'adozione di un repertorio discorsivo adeguato al dialetto.
[15] Antonio Giacomo Gualzetti, Discurzo primmo, addò se parla de li primme Govierne de lo munno e comme venettero li Rri, Napoli 17 fiorile, opuscolo in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso nell'Italia giacobina, Messina - Firenze, Casa editrice G. D'Anna, 1981, p.38 n.10.
[16] G. De Simone, Parlata de core de Gaitano De Simone a tutt'i cittadini, s.i., foglio volante, in Atti, leggi, proclami cit.
[17] Pe li guaje e la contentizza noste. Canzona, Napoli, s.d. in Atti, leggi, proclami cit.
[18] La ripetizione è la figura principale, che sostiene ed organizza l'argomentazione anche a livello sintattico, sostituendosi ai nessi logici, indispensabili invece per l'italiano.
[19] Ngiuriata de la Coccovaja de Puorto all'ex Regina, Napoli, s.d. testo in Giornale Patriottico, V, 171 in Atti, leggi, proclami cit.
[20] Mineco Piccinni, Li patriote apposticcio de lo Novantanove, Napoli s.d., foglio volante in Atti, leggi, proclami cit.
[21] Sergio Fasano, Parlata pe chille che non ntennono lo Toscanese e nfra l'allegrizze stanno comme l'asene mmezzo a li suone, Napoli 3 febbraio 1799, testo in Giornale patriottico, II, 3 in Atti, leggi, proclami cit.
[22] Antonio Giacomo Gualzetti, Chilleto che no tiempo arreto se chiamava mmemnorejale a li cetatine rappresentante lo govierno provesorio e propriamente a li ciuche smargiasse de lo potere esecutivo, Napoli 10 sciorile anno settemo (29 aprile 1799), opuscolo in Atti, leggi, proclami cit..
[23] G. Scarano, Sonetto, in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p.123-124.
[24] La festa che fanno li napoletani, per la vittoria riportata dalli bravi guerreggianti, del Fedelissimo Vassallo Sac. C. Jannino in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p.69
[25] A gloria di Dio, ed onore delle vittoriose truppe del nostro Re Ferdinando IV - Lo sfratto de' giacobini, dell'Umilis. e Fedelis. Vassallo Tommaso Curcio in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p.69
[26] B. Croce, Canti politici del popolo napoletano, Napoli 1892, p. L.
[27] Sbafata che fa uno de chilli Napolitani che nfì a mò s'ha fatto e s'ha voluto fa lo fatto sujo, de vierze Toscane, e Napolitane, e a comme vuò, e comme voglio. Fatta a Napole l'anno 1799, cit. in A. Cimbalo, La lunga marcia del cardinale Ruffo, a cura di M. Battaglini, Roma 1967, p. 107.
[28] A gloria di Dio cit.
[29] La festa che fanno li napoletani cit.
[30] Lo ttuosseco de li Giacobe, sbafata co lo Core, che fanno co chilli li Realiste 'mmiezo Mare, di Aniello Agostino in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p. 71.
[31] B. Croce, Canti politici cit., p.XLIX.
[32] Ibidem, p.XLVI- XLVII
[33] Ibidem, pp.L, LI.
[34] In B. Ciccotti, Il brigantaggio in Basilicata dai tempi di Fra Diavolo sino al 1811 e storia particolare di Palazzo San Gervasio, Napoli 1873.
[35] L. Martini, Dialoghi tra un curato ed un contadino, in Giacobini Italiani, a cura di D. Cantimori e R. De Felice, Bari 1964,vol. II, pp. 419-422.
[36] Michele Natale, Catechismo repubblicano per l'istruzione del popolo e la rovina dei tiranni, Napoli 1799, cit. in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p.48-49, 103-107.
[37] Simbolo repubblicano, s.i. in Atti, leggi, proclami cit.. p. 2012.
[38] Michelangelo Cicconi, Spiega de lo santo Evangelio a lengua nosta, Napoli s.d. in Atti, leggi, proclami cit., p. 1954.
[39] Ibidem
[40] Napole a li Franzise, manoscritto in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p.142.
[41] Discorso recitato per ordine dal cittadino Vincenzio Russo di Palma nella festa nazionale del dì 30 fiorile anno 1° della repubblica Napoletana. Napoli 19 maggio 1799 in Atti, leggi, proclami cit., p.1950.
[42] Il Monitore Napoletano 1799 a cura di Mario Battaglini, Napoli, Guida editori, 1974, pp. 577-578.
[43] Donatien - Alphonse - Francois, marchese di Sade, Viaggio a Napoli, inverno 1755-56 in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p. 67.
[44] In lode dell'augusto monarca Ferdinando IV - Miserere a' giacobini dell'Umilis. e Fedelis. Vassallo L. Amisierro in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p. 80.
[45] Supplica del Popolo Chiaiese, dell'Umilis. e Fedelis. Vassallo della M.V., P.G. da S. Giuseppe, Agostiniano Scalzo M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p. 80.
[46] La festa che fanno li napoletani cit.
[47] A. Cimbalo, La lunga marcia cit., p. 29.
[48] Carlo de Nicola, Diario Napoletano (1798-1801), al giorno 31 luglio 1799.