Ministero per i Beni e le Attività Culturali

SOPRINTENDENZA ARCHIVISTICA PER LA CAMPANIA

 Giacobini e sanfedisti: la conquista del consenso

nel 1799 in Campania

La mostra è dedicata ad uno degli aspetti più interessanti del periodo repubblicano: la scoperta della politica e più precisamente l'affinamento delle strategie del consenso. L'itinerario espositivo intende ricreare l'atmosfera, la tensione ideale e politica del semestre rivoluzionario scegliendo il punto di vista privilegiato delle tecniche della conquista del consenso, base primaria dell'attività politica moderna.

La censura della restaurazione ordinò i falò dei documenti del '99, pensando così di disperdere il ricordo della straordinaria esperienza . Nonostante ciò, facendo ricorso alle fonti archivistiche superstiti ed alla copiosissima bibliografia[1], si è cercato di ricostruire quelle che con linguaggio contemporaneo definiremmo "strategie di marketing" dei repubblicani e dei monarchici, dei giacobini e dei sanfedisti, operando certo qualche semplificazione e forzatura, poiché non di fronte a due partiti monolitici ci troviamo, ma a 2 orientamenti di massima, infinitamente variegati all'interno. L'intento è quello di avviare, cogliendo l'occasione del bicentenario, un nuovo cantiere di storia sociale, che raccolga quanto le celebrazioni del bicentenario hanno permesso di scoprire e riscoprire sugli eventi del 1799[2].

I rivoluzionari del 1799 non si autodefinivano 'giacobini', preferendo il nome di 'patrioti', anzi il termine di giacobino fu inteso soprattutto come definizione dispregiativa da parte delle forze reazionarie che soffocarono nel sangue la Repubblica. E, a posteriori, non si può non convenire con i patrioti del '99: il giacobinismo, teoria politica del potere rivoluzionario oltre che fenomeno storico di portata europea, significò innanzi tutto capacità di ricorrere alla mobilitazione delle masse popolari come strumento di pressione politica. La conquista dell'egemonia della piazza, le "giornate" parigine, furono il mezzo per imporre profonde svolte politiche o per salvare situazioni disperate, e rappresentarono la capacità di saldare il movimento urbano con quello contadino in una alleanza in cui l'egemonia restava nelle mani della "Città". Tutto questo nel 1799, a Napoli e nelle province, non avvenne mai e le parole di Gennaro Serra, duca di Cassano, dal patibolo, di fronte alla folla in tripudio, lo testimoniano drammaticamente: "Ho sempre desiderato il loro bene e loro gioiscono della mia morte".

L'adesione del Regno di Napoli alla coalizione contro la Francia rivoluzionaria aveva imposto un grandioso sforzo bellico; la già compromessa situazione finanziaria del Regno subì un vero e proprio tracollo nel decennio 1789-1799. La situazione politica non era migliore: la congiura del 1794 e i successivi processi avevano approfondito il solco tra la monarchia e gli intellettuali più dotati di capacità critiche ed innovative. Tutto spingeva alla radicalizzazione dei conflitti.

Teatro dell’eroismo giacobino e dei massacri sanfedisti, il Novantanove diventa parte essenziale della nascita di alcuni stereotipi che hanno agitato il dibattito delle celebrazioni del bicentenario. L’esperimento repubblicano napoletano va collocato nel contesto dell’Europa giacobina e poi napoleonica: ha alle spalle le armi francesi e l’esperienza ancora acerba della Grande Rivoluzione. Lo stesso sanfedismo fa parte della grande jacquerie antifrancese che, a fine anni Novanta, sconvolge l'intera penisola . Le sommosse esprimono conflitti tra campagne e città, liti fra città e città, faide tra clan familiari; nascono dal contenzioso tra ricchi e poveri, contadini e feudatari, agricoltori e consumatori. Si spiegano in un clima inasprito dal rialzo dei prezzi, dalla leva militare e dagli spietati saccheggi degli eserciti. Il Sanfedismo inoltre trova origine nelle ferite di una stagione riformistica tardo settecentesca, nel corso della quale lo Stato borbonico, lottando contro abusi feudali e privilegi ecclesiastici, aveva finito col mettere in crisi la tradizionale società paternalistica. Il risultato è la delegittimazione della monarchia, della feudalità e delle amministrazioni pubbliche.

Gli avvenimenti del 1799 si collocano in un grande vuoto di potere; non stupisce che, in queste circostanze, esploda la violenza di massa.

 

I protagonisti

 

Mitica appare anche la rappresentazione di una élite intellettuale di spessore europeo ed isolata in patria. La Repubblica del 1799 è governata da avvocati, intellettuali e nobiltà cadetta , tre categorie che rimandano a due caratteri specifici del Mezzogiorno: la tradizione giuridico statuale e la questione della feudalità. E’ anche vero tuttavia che quella stessa cultura dello Stato, che è un dato essenziale della storia del Mezzogiorno e che contribuirà ampiamente a fondare l’Italia unita, assai poco riesce a diventare cultura locale diffusa (una considerazione che sembra confermare la frattura tra élites e popolo, o meglio le difficoltà di ceti dirigenti nell’organizzare in modo efficiente la sfera pubblica). Tra la scienza giuridica napoletana e la cultura politica generale esiste una distanza che non verrà mai colmata.

L’élite giacobina del Novantanove, malgrado i suoi tentativi di addestrare alla politica la città dei lazzari, non saprà superare quella passività che è fra le caratteristiche più spesso richiamate a proposito della vicenda meridionale:

"E’ un fatto che gli eventi del 1799 e del 1806 si svolgono all’ombra delle idee e delle armi francesi, la cesura dell’estate 1860 all’ombra di Inglesi e Piemontesi, il 1922 all’ombra del Nord agrario-industriale, il 1943-1945 all’ombra degli Alleati e dei partiti settentrionali. Ed è probabile che come in un circolo vizioso nella passività del Sud si rispecchi il ricorrente carattere “giacobino” di alcune sue élite (da Vincenzio Russo a Giorgio Amendola).

Il Novantanove mette in scena alcuni segni forti dell’immagine del Mezzogiorno: statalismo, frammentazione dei poteri, isolamento delle élites colte, violenza plebea [3]"

Il movimento repubblicano dovette soccombere, stritolato dalla reazione, soffocato dalla politica dei francesi, ma le esperienze maturate in questo periodo, i quadri formatisi nelle cospirazioni, nella lotta politica, nelle insurrezioni, nelle galere, rappresenteranno un grande patrimonio ideale e di lotta, che significherà molto per il periodo successivo e per tutto il corso del Risorgimento.

Studi e ricerche recenti hanno dato risalto alle figure di fondo dei quadri ufficiali, ai comprimari, alla moltitudine viva e senza nome che pure partecipò alla vicenda rivoluzionaria e che la regina Maria Carolina, con la sua penna aguzza, classificò sociologicamente"…Gli alti ceti sono perfidissimi; la marina e l'artiglieria tutta cattiva; molti uffiziali ed infinita nobiltà e saputelli, mezzi paglietti, studenti "[4]. Essi diverranno il nuovo ceto di operatori amministrativi e di intellettuali nel corso del Decennio e spesso costituiranno il nerbo più resistente alla ventata di restaurazione impostasi dopo la fine del regime napoleonico .

La periodizzazione che separa drasticamente e scolasticamente Settecento ed Ottocento non deve certo far dimenticare la resistenza inerte di una società come l'italiana che nessuna rivoluzione profonda ha divelto dai cardini, deviandola dalla sua traiettoria. Ma non deve comunque nascondere la produttività politica di questo periodo di crisi, ai fini del successivo periodo storico: l'esperienza del triennio rivoluzionario significherà infatti, anche per l'Italia e per il Mezzogiorno, qualcosa di grande e di nuovo: sulla scena della storia compaiono nuovi soggetti politici, che non si muovono soltanto per motivi contingenti o per necessità elementari di sopravvivenza, ma concepiscono anche disegni di trasformazione della società, del suo assetto politico e sociale.

La riorganizzazione dello stato

Nel dicembre del 1798, il re, sconfitto dall'armata francese nelle cui file militavano patrioti napoletani esiliati, perpetra l'ultima rapina: il Tesoro di monete d'oro e d'argento dei Banchi[5], riposto in 78 casse, viene trasportato a Castel Nuovo per essere imbarcato e seguire il Borbone nella fuga .

Centoquarantaquattro giorni sono ben pochi per consentire un giudizio sulle capacità della classe dirigente repubblicana. I documenti superstiti rivelano comunque l'attività di soggetti politici capaci di concepire progetti di trasformazione della società, del suo assetto politico e sociale, individuando nel feudalesimo, nell'ancien régime il nemico principale da abbattere. La fase governativa repubblicana risentì pesantemente della situazione politica generale, come testimoniano i continui rimpasti “ministeriali”, gli infiniti comitati e commissioni, che isterilirono i pur esili margini di manovra. Certo non giovò la disastrosa situazione della finanza pubblica, che non consentì la soppressione dell'odiosa 'decima' istituita da re Ferdinando

La stessa presenza dell'armata francese costituì certamente un problema per i patrioti napoletani: pur se nutriti di cosmopolitismo rivoluzionario, essi certo erano ben consci di quanto fosse sottile la linea di demarcazione tra guerra di liberazione e guerra di conquista  . Ma era loro altrettanto chiaro che senza le truppe francesi nulla potevano contro le forze della reazione: si trattava di scegliere tra i "Francesi come sostegno ad un programma di democratizzazione e modernizzazione del paese ed una monarchia retriva in balia delle forze inglesi, austriache e russe"[6]. I repubblicani napoletani non furono né sottomessi né complici, e tanto meno ricevitori passivi di una rivoluzione importata, dal momento che la Repubblica nasceva contro la volontà del Direttorio; il governo francese infatti nel 1799 avversava la nascita di nuove repubbliche italiane per il timore di riaccendere la rivoluzione, proprio mentre in Francia si tentava di concluderla. Il 18 brumaio del generale Bonaparte è vicino.

Comunque l'esperimento repubblicano (la rivoluzione in vitro gelosamente sorvegliata dall'occupante francese) consente ai patrioti di esercitare la funzione di organizzatori, elaboratori di un progetto alternativo di società, che dia forma alle nuove esigenze attraverso il rinnovamento istituzionale. Nessun ambito del vivere sociale sfugge al disegno rivoluzionario

La caratteristica dell'azione di governo che vale la pena di sottolineare è la grande attenzione per i problemi dell'assistenza -"l'indigenza è un bisogno che non soffre dilazioni" -, attraverso l'erogazione di sussidi a volte concepiti come veri e propri ammortizzatori sociali.

Certo una linea interpretativa propone un carattere permanente del Mezzogiorno d’Italia, un segno specifico del Sud nel quadro italiano ed europeo: il carattere “populista”, nato ben prima del '99 e continuato ben oltre i Borbone. "Questo carattere, che è al tempo stesso ideologia e pratica sociale, si identifica lungamente con l’assistenzialismo d’antico regime – il pane di forni pubblici, le elargizioni reali, gli apparati di festa – e diventa poi elemento di fondo del rivendicazionismo  e delle policies che confluiscono nella questione meridionale otto-novecentesca. Si coniuga con fenomeni strutturali quali il pauperismo e la polverizzazione  dei mestieri, la moltiplicazione dei circuiti di scambio e di ridistribuzione, il parassitismo, la micro - corruzione amministrativa, le reti del crimine organizzato. (…) della linea populista saranno poi protagonisti i governi borbonici, la Sinistra liberale, i partiti di massa dell’Italia repubblicana, gli apparati ecclesiastici"[7]

Nuovi soggetti politici: le donne

 

Tra i provvedimenti assistenziali della neonata repubblica, moltissimi hanno per destinatari donne . Il contributo femminile alla rivoluzione non fu marginale, eppure "libertà, eguaglianza, fraternità restano sostantivi di genere femminile solo nei dizionari: il ruolo delle donne nella breve parabola della Repubblica Napoletana è misconosciuto". Le fonti per la storia delle repubblicane sono scarsissime: la repressione realista, attraverso la Giunta di Stato riunita nel convento di Monteoliveto, ci ha lasciato elenchi di "rei di stato" tra cui donne condannate alla forca, alla mannaia, all'esilio, al carcere, alla penitenza in monastero.Il dolore delle donne della rivoluzione durò per anni: oltre cento seguirono i congiunti in esilio, altre persero tutti i loro patrimoni, qualcuna non resse al dolore e preferì suicidarsi. Ma tutto questo dolore non fu senza frutto: esso costituì la base per un più generale cambiamento dei costumi e dei comportamenti e delle donne e degli uomini, come testimoniano i mutamenti legislativi in materia successoria e matrimoniale, portati poi a compimento durante il decennio

Sulle donne della Rivoluzione Napoletana recenti studi hanno offerto al contempo una narrazione partecipe ed incalzante degli avvenimenti ed una rassegna di ritratti, vivaci e informatissimi, da Eleonora Fonseca Pimentel  -la più nota delle "donne di testa", le intellettuali vestite da uomo e con i capelli tagliati "alla Bruta" - fino alle tre sconosciute donne in uniforme repubblicana, morte a giugno nel forte di Vigliena. Le "patriotte", con la sola eccezione del ruolo rivestito dalla Pimentel, son rimaste al di là della linea d'ombra, poco note o perfettamente ignote; pur tuttavia esse furono attive sin dalla fase delle prime congiure, negli anni 1793-94. Nessuna donna riuscì ad attingere alla rappresentanza ed alla partecipazione politica, ma non per questo - fossero esse aristocratiche, borghesi o popolane - le donne restarono estranee agli sconvolgimenti del 1799.

Delle tantissime polizze, relative a sussidi, emesse a favore di donne, particolarmente interessante è quella emessa a favore di Francesca Alcubierre, la cui vicenda assume carattere esemplare. Figlia del generale spagnolo Filippo e seconda moglie del capitano Francesco Bonocore, strenuo difensore del castello di Ischia dagli assalti degli inglesi e per questo impiccato, la Alcubierre sfuggì alla pena capitale perché incinta, ma fu condannata a 10 anni nel carcere della Vicaria, dove le nacque morta una bambina.

Per completare, se pur sul versante realista, la partecipazione femminile agli avvenimenti del 1799 non si può non far cenno alla regina Maria Carolina, l'Asburgo giunta quindicenne alla corte di Napoli. Molto si è scritto sulla sua avversione al partito ispanofilo, sui suoi rapporti con John Acton, sulla sua amicizia con Emma Hamilton . Certo il suo furore reazionario - per la morte della sorella minore Maria Antonietta, regina di Francia, - si accrebbe dopo la fuga a Palermo, dove non si limitò a nutrire propositi di vendetta contro la "nazione vile, corrotta ed egoista", ma attivamente si adoperò ad assoldare capi briganti, promuovendoli al rango di sostenitori della causa reale: Michele Pezza (detto Fra Diavolo), Sciarpa nel Cilento, Pronio negli Abruzzi, i fratelli Mammone nella zona di Sora. Sono grandissime le responsabilità di Maria Carolina nelle le stragi di stato seguite alla riconquista del regno, nel "ripurgo di più migliaia di persone"; non è certo possibile assolvere la sua totale assenza di pietà, ma essa fu in parte determinata dalla convinzione che la monarchia esisteva per diritto divino, che gli stati appartenevano ai monarchi, che non esistevano cittadini ma solo sudditi, da punire senza scampo quando attentavano ai diritti dei sovrani. Maria Carolina è il frutto dell'assolutismo regio, ed i suoi limiti furono quelli di una intera generazione di sovrani "incapaci di vivere il loro tempo e cogliere le nuove idee, che parlavano di diritti del popolo, di libertà ed eguaglianza"[8]. Ed è proprio alla penna di Maria Carolina, nelle lettere a lady Hamilton, che dobbiamo una testimonianza della rivoluzione attiva al femminile, dell'esistenza di "ribelli dei due sessi": "Lo stesso trattamento dei giacobini infami dovrà essere riservato alle donne compromesse con la rivoluzione e tutto questo senza pietà".

 

Il problema del consenso: la politica di massa e le tecniche della propaganda

 

Il triennio rivoluzionario ha rappresentato il punto di accumulo delle contraddizioni, latenti e manifeste, di una società di antico regime: questa premessa permette di evitare l'errore di considerare la nascita di governi repubblicani nelle varie località del regno di Napoli come effetto esclusivo dell'avanzata dell'esercito francese. Nessun processo di centralizzazione assolutistico era intervenuto a rinsanguare il vecchio stato dinastico: dietro la vischiosità delle strutture di ancien régime il nuovo si faceva strada a fatica. Attori nuovi e antiche scenografie sembrano, a prima vista, perfettamente integrati, fornendo l'immagine di una società ristagnante che alberga nel suo seno i semi della dissoluzione. E non sarà l'impegno dei patrioti napoletani (ed italiani in genere) ad impedire che la vecchia trama patrizia riemerga nell'Ottocento.

Il crollo del vecchio stato, delle vecchie classi, rappresenta l'apertura di uno spazio politico che rende possibile una nuova occupazione del potere: accelera i tempi della trasformazione del ceto intellettuale in ceto di governo. I nuovi governanti hanno la necessità di trovare alleati in quest'opera di consolidamento del potere, sull'esempio dei  repubblicani francesi che avevano saputo ricorrere all'appoggio delle plebi urbane e contadine. Ma le masse popolari del regno di Napoli, strette nella secolare miseria, non sanno che la rivoluzione le riguarda.

Il compito primario dei patrioti è quello di risvegliare "la plebe assopita nell'ignoranza e nella schiavitù", per indicarle i vantaggi che il nuovo potere può assicurarle. L'esigenza di stabilire un rapporto con le masse popolari non è una semplice sensibilità, ma si fonda sull'esigenza di appoggiare la forza e la dignità della democrazia repubblicana su solide basi di massa.

Non si tratta semplicemente di alfabetizzare il popolo, trasmettere ad esso una cultura elementare, proporzionata alle sue capacità di comprensione, ma di formare dei cittadini, di costruire costumi e mentalità organiche alle leggi ed alle istituzioni politiche. Per sostanziare quest'obiettivo bisogna istituire un sistema di educazione pubblica che va distinto dall'istruzione; questa si limita a distribuire un sapere, l'educazione ha l'obiettivo di formare le coscienze. Quest'idea diventa un luogo comune, fonda e giustifica l'introduzione della propaganda istituita, concepita come iniziativa globale, riguardante tutti i cittadini, avente lo scopo di orientare le loro passioni, d'introdurre momenti formativi in senso positivo e d'indicare i nemici da battere.

Il triennio 1796-1799 colloca in primo piano il ceto degli intellettuale moderni, di coloro che creano le opinioni, laicizzano i comandi sociali, promuovono le mode, stabiliscono un legame tra produzione culturale e azione politica. L'intensa attività progettuale dei patrioti italiani prende corpo negli scritti e nei dibattiti assembleari, per ribadire ovunque la necessità di riempire di contenuti concreti, d'imprimere una spinta operativa a quella che rischia di rimanere una pura affermazione di principio. Ritagliare un abito morale per ciascun cittadino significa sottrarre le masse popolari ad un destino secolare che le ha condannate a rappresentare la folla, senza volto e senza identità. Saranno i costumi, le abitudini, gli strumenti mentali nuovi a fondare realmente la repubblica; l'educazione è realmente lo strumento di questa operazione destinata a strappare le nuove leggi dal regno della teoria, a tradurle in realtà, in vita quotidiana.

Ma se l'educazione è il campo in cui più chiaramente si manifesta l'impegno politico della classe dirigente, quest'attenzione puntuale, insistente ne fa anche il luogo in cui vengono alla luce i timori per la labilità dei risultati raggiunti, per la loro reversibilità sempre in agguato. L'educazione, nella funzione che la rivoluzione le ha assegnato, è lo strumento capace di sottrarre al ritmo incalzante dei giorni il rischio del cambiamento, del ritorno all'antico.

Educazione ed istruzione si pongono l'una accanto all'altra nel piano complessivo volto a cancellare i segni della superstizione e dell'ignoranza perpetuati ad arte dall'antico regime; ma l'una si differenzia radicalmente dall'altra. All'educazione è riservato il campo delle passioni, dei sentimenti, dell'anima, dell'immaginazione da cui restano escluse le facoltà intellettuali, gli strumenti di analisi il cui sviluppo può scaturire solo da un’istruzione impartita sin dalla più tenera età. L’azione politica  si rivolge al popolo adulto, avvolto nelle nebbie dei pregiudizi e dei costumi distorti: ha bisogno quindi di una educazione ‘permanente’ (concetto questo di straordinaria modernità!).

In definitiva l'obiettivo della pedagogia rivoluzionaria è quello di sciogliere il nodo intricato delle passioni, degli impulsi dell'anima, delle affezioni violente e caotiche. Le volontà contraddittorie ed elementari che si proiettano in azioni incontrollabili, debbono confluire nell'universo ordinato delle virtù e dei costumi repubblicani; ma questa trasmissione per così dire verticale di valori e norme di comportamento non fa appello alla ragione ma ai sentimenti, proietta l'immagine di una coscienza popolare formata, diretta, regolata, tutto sommato ricettiva.

Il ricorso ai sentimenti, all'immaginazione, in un'epoca in cui la politica sta diventando politica di massa, propone il problema dell'organizzazione del consenso in termini moderni. Il nuovo potere deve assicurarsi il controllo dei mezzi che formano e guidano l'immaginazione collettiva, deve tradurre in oggetti che s'impongono all'attenzione, in immagini che destano stupore, in grandi spettacoli ed emozioni profonde, il modello formativo del cittadino virtuoso. A questo fine si indirizzano gli sforzi della classe dirigente repubblicana nella ricerca di un linguaggio e dei modi espressivi che rendano assimilabili i principi rivoluzionari; la necessità di ampliare il consenso  si esplicita in una propaganda multiforme, che un contemporaneo descrive ironicamente:

"Si veggono le mura della città foderate di Leggi, Controleggi; Sacrileggi, Proclami, Avvisi, Inviti e mille altre carte che si vanno vendendo per la città"[9]

Una delle caratteristiche della propaganda in italiano è l'uso di un linguaggio aulico, denso di riferimenti neoclassici, tutto sommato retorico e completamente estraneo a chi non partecipava della stessa cultura.

La propaganda in italiano accentua fortemente i motivi ideologici, fondandosi su parole polisense ed ambigue come Libertà, Eguaglianza, Popolo (sempre opposto a Tiranno), parole che se contenevano valori emotivi per gli oratori ed un pubblico colto ( già consenziente) restavano prive di significato quando  erano dirette ad un pubblico diverso, incerto ed addirittura ostile, per convincerlo all'adesione:

"Dolce libertà gradita, depositata tra le mani dell'uomo nel campo Damasceno, e sanzionata religiosamente dalla provvida natura, legittima amorosissima Genitrice. Empi, profani, e ladroni tutti quelli che ardirono d'invocarla a noi sotto lo specioso protetto del trono"[10]

Ed ancora:

"La libertà, questo nome tanto aborrito da' Tiranni, non è una cosa vana e chimerica: essa è una Dea, la quale con una mano tiene il codice delle leggi, con l'altra il pugnale vindice dei diritti dell'uomo, e co' piedi calpesta gli scettri e le corone dei Re."[11] I discorsi si modellano sempre su un codice retorico precostituito, dotato di un repertorio figurale neoclassico, con moduli linguistici stereotipi, estranei ed incomprensibili per un uditorio popolare:

"Coloro che hanno sofferto la persecuzione del tiranno per amore della libertà parleranno di essa con il tuono di Demostene e veglieranno per essa con la fermezza di Bruto (…). Impareranno dai maestri del vivere libero. Bruto giurò lo sterminio dei Tarquini (…), Licino capo della sedizione e della ritirata fu uno dei primi tribuni (…), l'esempio più feroce del patriottismo."[12]

Era per lo meno ingenuo sperare di alleare il popolo al governo repubblicano, proponendo, sotto forma di ritornello, i principi rivoluzionari:

"Adunque cittadini, siam liberi ed uguali: non ci stanchiamo mai di ripeterlo. Siam liberi ed uguali: dimentichiamo i nostri servili ferri. Siam liberi ed uguali: onoriam la natura che sì ci ha fatti (…) Siam liberi ed uguali: spargiam di fiori l'augusta Repubblica Francese […] Siam liberi ed uguali: amiamoci come fratelli"[13]

   

La propaganda repubblicana in dialetto

 

Particolare interesse riveste al contrario la valorizzazione del dialetto come strumento privilegiato della propaganda popolare. Vale la pena di sottolinearlo perché la propaganda in dialetto evidenzia un carattere originale del movimento democratico italiano, e meridionale in particolare, che si differenzia dall'esperimento francese dove la repressione del dialetto conduceva le masse all'uso di una lingua estranea, costringendole ad una sorta di esilio espressivo.

Non così a Napoli, dove l'adozione della propaganda in dialetto fu determinata dal riconoscimento della separazione linguistica esistente: infatti alla fine del Settecento la diffusione dell'italiano aveva avuto una certa diffusione presso i ceti medi (che fornirono il personale politico della Repubblica Napoletana), mentre esclusivamente dialettofoni erano il sottoproletariato urbano e la massa di artigiani, bottegai, piccoli contadini, vale a dire i 3/4 della popolazione del Regno. Sin dal 5 febbraio, la Fonseca Pimentel aveva scritto sul suo giornale:

"Molti zelanti cittadini pubblicano anche ogni giorno delle civiche ed eloquenti allocuzioni dirette al popolo; sarebbe però da desiderarsi che se ne stendessero alcune destinate a quella parte di esso che chiamasi plebe, proporzionata alla costei intelligenza, e ben anche nel costei linguaggio"

E nel numero successivo aggiungeva

"Finché dunque la plebe, mercé lo stabilimento di una educazione nazionale non si riduca a pensare come Popolo, conviene che il Popolo si pieghi a parlar come plebe. Quindi ogni buon cittadino, cui per la comunione del patrio linguaggio si rende facile il parlare e 'l commischiarsi fra lei, compie con ciò opera non solo utile, ma doverosa".

Programmaticamente l'adozione del dialetto è considerata transitoria, strumentale per il conseguimento di quel consenso iniziale su cui poi potrà fondarsi il vero processo educativo, cioè appunto condurre la plebe a pensare come popolo, trasmetterle, almeno in parte, la cultura di cui partecipano gli oratori[14].

L'adozione del dialetto comporta, oltre che una specificità linguistica, una selezione dei contenuti da trasmettere. In molti casi si hanno esempi di argomentazioni costruite premeditatamente per il pubblico specifico cui sono dirette, non accettabili da uno diverso, argomentazioni che l'oratore stesso, molto verosimilmente, non ritiene obiettive.

Si veda ad esempio l'utilizzazione di Eva per screditare la classe delle donne, per poi inserirvi la regina Maria Carolina:

"Tutte sanne ch'Adammo se nzoraje e lo Signore le dette pe' mmogliera la sie Eva, e pe' farele volé bene nfra lloro, la cacciaje da dinto a 'na costata de lo padre Adamo. Ma che bolite che ve dico! 'sta mogliera fuje 'na femmena mmalora, e bene a dicere ca t'aveva da fa la scasazione de lo marito e de tutto lo genere umano (…) E ba' dì bene de le femmene! E comme, bene mio, si da la primma femmena de lo munno avimmo accommenzato a passà guaje! E comme maje nce poteva fa bene la regina, ch'era femmena? Essa è stata pe' nuje 'n'auta Eva"[15]

Evidentemente, in un discorso che non avesse come destinatario il popolo, la condanna della regina si sarebbe giustificata con tutt'altri argomenti; ma nella propaganda in dialetto sono predominanti le argomentazioni analogiche ed emotive.

Come argomento di autorità per confermare certe asserzioni, ci si serve delle autorità popolari e dei proverbi: il proverbio, in particolare, rimanda al sapere dell'uditorio e lo costringe ad accettare le conseguenze che derivano dall'enunciato. Ad esempio, per convincere il popolo a mantenere la calma, lo si minaccia con un proverbio:

"E pensammo e tremammo, ca si non nce stammo quiete, riesce lo mutto c'appriesso la guerra vene la carestia! Avite 'ntiso? Si non nce stammo quiete, appriesso la guerra vene la carestia"[16].

Il mutamento di codice linguistico comporta anche un mutamento delle figuralità: scompaiono gli esempi tratti dalla storia greca e romana, incapaci di essere comprese e di suscitare emozioni. Si smette di qualifica la regina Maria Carolina come "Messalina" e le si attribuiscono appellativi meno colti ma più incisivi sul tipo di "Malafemmina", "Ciantella", ecc. Il re Ferdinando   , definito dalla propaganda in italiano "molle Sardanapalo" viene costantemente definito "Maccarone" (con la variante di "Maccarone senza pertuso"), "Ciuccio", "Nzallanuto" aggettivi comunemente usati in senso di scherno:

"Che prejezza 'nzicco 'nzacco

che fortuna o che contiento

Eè arrevato lo momiento

de la nostra lebertà

 

E' fijuto lo Teranno

la Squaltina, la Ciantella

s'hanno rotto la nocella

so' squagliate 'mmeretà.

[…]

che doje piezze d'archetrave!

Lo menisto e la Mogliera:

da no 'mpiso e na 'mpechera

vi che 'nzierto se po fa!

[…]

Isso è Ciuccio e 'nzallanuto,

essa è Birba e Pettolella,

nfra la vrasa e la tiella

stamme frische 'mmeretà!

[…]

Co doje botte, a cauce 'nculo,

votta, fuje, se so 'mmarcate:

li Franzise so arrevate

torna mo: che buò turnà?"[17]

 

I fogli di propaganda in dialetto si avvalgono, inoltre, di uno sfruttamento intensivo quanto elementare della ripetizione, che sembra favorito dalla più ampia persuasività del dialetto rispetto alla lingua italiana[18]. Oltre a favorire l'adesione emotiva del pubblico, il susseguirsi quasi ossessivo di nozioni pressocchè identiche rappresenta una forma embrionale di ‘persuasione occulta’, poiché evitando il confronto diretto, insinua in maniera indolore le idee propagandate. L'esempio dell'invettiva contro la solita regina Maria Carolina è significativo:

Carolì, si te stive ,'at'anno

quanta cose volive vedé;

 sì ffojuta, già tutte lo ssanno,

statte bona, e covernate.

[…]

Co l'Angrese faciste a l'ammore,

e se steva ogni juorne co te;

te scoprette pe furba de core

statte bona, e covernate.

 

La matina, lo juorno, la sera

Galeota veneva da te,

 ma si pazza, sì bota bannera

statte bona, e covernate.

 

Se credeva ca jere costante

Sì, l'ammico moreva pe te

 Po te vide appricata co tante

statte bona, e covernate.

[…]

Co li puoste de la farina

Era ognuno gabbato da te,

nce l'haje fatta accossì Carolina

statte bona, e covernate.

 

Ogne juorno na gran lebberanza

Se faceva ntesta de te

E accossì te jenchive sta panza

statte bona, e covernate.

 

Carolì è fernuto chill'anno

Ch'era ognuno gabbato da te;

ma se sape, sì chiena de nganno

statte bona, e covernate.[19]

 

La propaganda in dialetto, partendo da valori affettivi in cui il pubblico popolare si riconosce pienamente, accomuna l'oratore agli ascoltatori, provocando quel fenomeno di appartenenza al gruppo che la propaganda in italiano non riusciva in alcun modo ad ottenere. Si giustifica così il frequente ricorso a espressioni tipiche, che hanno un contenuto affettivo-emotivo: "na chiacchierata all'uso nuosto", " a lengua napoletana" e simili, che hanno lo scopo di creare una complicità preliminare e di influenzare favorevolmente il pubblico.

Il ricorso alle convinzioni popolari, alla superstizione, sembra smentire l'intenzione di liberare dall'ignoranza e dai pregiudizi il popolo, mostrandogli la luce della ragione: ma tale ricorso, come per il dialetto, è ritenuto puramente transitorio. Ed è proprio il carattere strumentale della propaganda dialettale che testimonia della concretezza delle preoccupazioni politiche che l'avevano ispirata, costituendo perciò un potente argomento contro la pretesa illuministica distanza dalla realtà attribuita ai patrioti repubblicani: essi al contrario nella loro realtà avvertirono l'urgenza di radicarsi profondamente.

Piuttosto si deve osservare che i contenuti della propaganda in dialetto restano gli stessi di quella in italiano; ritorna il tema della libertà che non deve sfociare nella licenza:

"Lo nomme lebbertà ,'ha avuto niente

Maje che spartire co la sfrenatezza,

e ccà nziemmo confonnere le ssiente.

S'è levata a lo Vizio la capezza,

le pparole, li scritte e ll'aziune

fann'arriccià li pile pe schifezza"[20]

E la definizione dell'eguaglianza non va oltre il suo valore giuridico:

"Lo povero e lo ricco songo eguale, ogn'uno potrà dì lo fatto sujo, e che bolite cchiù?"[21]

In definitiva anche la propaganda in dialetto meglio concepita non riuscì a rompere la fitta barriera di incomprensione che divideva le classi povere dai principi di libertà ed eguaglianza. Sarebbe occorso ben altro: una decisa azione di governo, tesa a migliorarne le condizioni di vita, a diminuire i gravami, a risollevare le manifatture e l'artigianato, a facilitare l'accesso  alla proprietà o alla libera conduzione della terra.

Proprio il richiamo alla concretezza dei benefici suona da monito per i governanti:

"Vì ca ( lo popolo) quanno sta chino co la panza mme sentarrà chiù meglio, ca si sta dejuno le farrimmo chiù male che bene. Vuje già mme ntennite. Ve lasso co lo buono jorno e ve dico Salute"[22]

La regia dei bisogni elementari: libelli e canzoni controrivoluzionarie

 

Contemporanea, ma nascosta, si sviluppa per tutta la durata della Repubblica la propaganda realista. Testimonianze della sua esistenza ci vengono dai giornali e dai fogli volanti, che continuamente scoprono congiure o ammoniscono che la serpe realista cova nel seno repubblicano.

Il carattere clandestino di questa propaganda ne determina la diffusione orale, e conseguentemente le difficoltà, per non dire l'impossibilità quasi assoluta di reperire materiale documentario. Ma alla caduta della Repubblica un vero e proprio torrente di sonetti, odi, professioni di fede realista, si affigge alle mura, si stampa sui giornali, si dedica ai sovrani per riconquistarne gli antichi favori. Tutta questa produzione rivela con immediatezza il suo carattere apologetico. Non a caso sceglie un linguaggio aulico e prezioso, forme stilistiche e metriche ricercate, una morfologia cioè adeguata alla maestà dei destinatari:

 

"Ai fedelissimi vassalli di S.M. FERDINANDO IV

Re delle Due Sicilie

Sonetto

Tergi Fedel vassallo il pianto, altero

Vanne, che 'l pianto tuo produsse effetto:

tornò la pace ad albergarti in petto

FERNANDO ritornò al suo impero.

La Legge, il Culto ed il dover primiero

Riacquistaro il lor natìo ricetto;

il tuo onor non si credea negletto,

Percorre alfin l'antico suo sentiero."[23]

Solo in maniera mediata è possibile ritrovare degli intenti propagandistici in questi documenti; tuttavia essi possono fornirci le fonti di ispirazione di quella che doveva essere stata la propaganda clandestina durante la Repubblica.

Uno dei temi ricorrenti è l'insistenza sul carattere traviato , deviante dell'esperienza giacobina; le descrizioni del regime rivoluzionario e del suo personale politico scivolano inevitabilmente nelle calunnie più velenose o nell'elencazione di perversità mostruose:

"Traditori iniqui e rii

Eran tutti i Giacobbini

Eran tutti Assassini

Chi vi è che non lo sa?"[24]

Lo stesso aspetto esteriore, la foggia dei capelli e dei vestiti dei patrioti diventano simbolo di devianza

"Tutti fanno i militari

Si stracciarono i collari (…)

Si recidono bel belli

Uomin donne li capelli

Dimostrando in tal maniera

Che eran degni di Galera"[25]

La repentina trasformazione dell'aspetto assume un certo protagonismo nella rappresentazione della sconfitta dei rivoluzionari; l'improvvisa sparizione dei capelli ricci, dei baffi, della barba, dei pantaloni repubblicani, suscita l'irrisione dei vincitori:

"Addò è ghiuta chell'aria smargiassa

Chille ricce, li mustacce e li barbette

E chille cauze a brachette?"[26]

Ed i penosi tentativi di travestimento offrono il destro ad impietose rappresentazioni della caduta della Repubblica:

"Chi spennava lo pennacchio,

chi la nocca se sceppava,

la mentura chi stracciava

pe' non farsela vedè.

Chi la zazzera s'alliscia

Chi se mette lo codino

Pe' non farse Giacobino

Priesto priesto scommeglià!

(…)

Cierte po' pe sta da fora,

e non esse canosciute,

le bedive stravestute

pe' ste chiazze cammenà.

Chi facea lo servetore,

chi facea lo tavernaro,

chi vestuto monnezzaro

se credeva de scappà"[27]

 

Seppur con i toni della letteratura celebrativa e d'occasione, i documenti dei realisti ci offrono un altro elemento che dovette essere il cavallo di battaglia della propaganda clandestina: il governo giacobino è fonte di ogni malanno, ma soprattutto della miseria e della penuria alimentare. Lo scopo era evidentemente quello di indirizzare il malessere popolare verso il governo repubblicano, accentuando l'appello ai bisogni elementari delle masse, calcando i toni del disagio conseguente alla guerra ed alla invasione francese.

I giacobini

"pazzi, scellerati

ci hanno tutti assassinati;

libertade ed eguaglianza

ci hanno tolto la sostanza

ed in mezzo a tanto imbroglio

manca carne, cacio ed oglio"[28]

 

Ed ancora

"Eguaglianza e Libertà

Libertà ed Eguaglianza

Tippi, Tappa questa panza

Io ancor mi sento far"[29]

 

La propaganda controrivoluzionaria in dialetto

 

Nei componimenti in dialetto, all'immagine del giacobino invasato, scimmia dei Francesi, si sostituisce quella del repubblicano longa manus di una Francia avida di denaro, che ricompensa lautamente i suoi complici

"Dimme na cosa Giacò, che Dio te scanza d'ogne bene, nun si stato tu la causa di tutto sto mmale? Nun fuste tu chillo, ca te faciste veni lo prodito de chiammà cà dinto chilli brutte mammmalucche (…) assassine pare e cumpagne tuoje, che te puozze rompere lo cuollo tu e lloro? Non t'haje fino a mò pigliati li denari da chille p'aprirete buono sto cannarone? (…) Nun si stato tu chillo ch'a botta de fraude e tradimiente le faciste trasì cca dinte (…) consignaste mano a chille lo Regno, ch'era roba de li muorte tuoje.(…) T'arricuorde quanta cavaliere e galantuommene faciste addeventà pezziente [ e mentre i Francesi ] scolavane le boccie di vino, e d'acquavita come se avessero vippeto acqua fresca, e chille poverielle vedevano e schiattavano? (…) T'arricuorde che t'auniste nzieme co lloro, e accomenzastevo co la tassa de li denare, levanno l'essere e la vita a nuje poverielle? (…) Chesta era la Prubbeca, che bolive mettere mpede (…) vì che bella lebertà! (…) Ve credivevo ca Dio dormeva, e ca nuje non tenevemo nisciuno pe nuje: L'avite sgarrata. Fora, fora; uffe llà, schiattate e crepate"[30]

Nella propaganda in dialetto spesso la raffigurazione della Repubblica e del suo personale politico perde i caratteri del demoniaco, per trasformarsi nell'espressione del lusso più sfrenato, dello sfarzo ostentato e costruito sul sangue di un popolo prostrato. E' un'immagine che tende ad alimentare la tradizionale avversione popolare nei confronti del potere costituito, considerato estraneo e nemico, o quanto meno fonte di diffidenza. Il messaggio, che oggi si definirebbe 'qualunquista', viene lanciato con ogni mezzo, anche sotto le spoglie del ritornello popolare, che tradisce però la sua origine letteraria e colta attraverso la metrica ricercata:

"Trariture, andate in giù

Site mpise;

Nun putite arrubbà chiù"[31]

 

Questa spinta alla diffidenza verso ogni tentativo innovativo ha un preciso significato politico: è un invito al rimpianto del tempo perduto. Alimentare l'immagine che il popolo ha di sé stesso - merce di scambio e territorio di rapina dei potenti - tende a confinarlo in un rapporto paralizzante con il potere stesso. L'alternativa si pone quindi tra il salto nel buio della rivoluzione o il rimpianto per le antiche forme del potere a cui si è già abituati, e che nel ricordo hanno ormai perso tutte le asprezze che la realtà quotidiana presenta invece tangibili.

La speranza del riscatto viene allora affidata al sovrano, l'autorità affettuosa e paterna che corre in soccorso dei suoi figli, castiga i delitti compiuti contro il suo popolo. Le invocazioni accorate dei popolani sulle barchette, che attorniano la nave del Borbone vittorioso ("Vulimme vedè Tata nuosto") testimoniano di un legame di adorazione che, pur in certe manifestazioni di fanatismo, non deve trarre in inganno. Il re, agli occhi del popolo, non è responsabile delle vessazioni patite in regime monarchico: sono stati i suoi amministratori che tradendo la sua fiducia hanno oppresso il popolo. La sua unica colpa è stata quella di disinteressarsi temporaneamente del governo, per dedicarsi alla caccia ed alle donne. Il volto oppressivo è stato piuttosto quello dei baroni vessatori dei contadini nelle campagne, o quello dei commercianti dissanguatori nella città.

Così la logica interna dell'insorgenza contro i governi repubblicani si rivela ispirata dalla sostanziale identificazione dei vecchi oppressori con i nuovi:

"Signò, mpennimmo chi t'ha traduto

Prievete, muonace e cavaliere!

Fatte cchiù cca e fatte cchiù llà

Cauce nfacce a la lebertà

E sona, sona la Carmagnola!

So' de li cunziglie

Viv' 'o re cu la famiglia!

 

[…]

Maistà,chi  t'ha traduto?

O stommaco 'e cane ch'hanno avuto!

Songo 'e principe e 'e signure

Songo state 'e cavaliere

Te vulevano prigiuniere!"[32]

 

L'assenza di tangibili segnali di cambiamento, di reale mutamento delle proprie condizioni di vita, hanno fatto scattare l'equazione tra giacobini e signori."Chi tiene pane e vino / ha da essere giacobino". La feroce persecuzione dei giacobini, lo scherno che accoglie la messe di impiccagioni, ispira macabre ballate, la cui violenza è giunta intatta fino a noi:

"A signora donna Dianora

Che cantava ncopp' o triato

Mo abballa mmiezo o Mercato

Viova viva u papa Santo

Ch'ha mannato i cannuncine

Pe scaccià li giacubine

Viva 'a forca 'e Masto Donato

Sant'Antonio sia priato"[33]

Ma la violenza popolare non è solo il naturale sfogo di una rabbia a lungo repressa: il bagno di sangue che segna la fine della repubblica funziona da rito propiziatorio di un avvenire più felice del secolare passato: il mito della resurrezione dei poveri viaggia sui forconi della Santa Fede

" A lu suono de la grancascia

Viva sempe lu popolo bascio

A lu suono de li tammurrielli

So resurti li puverielli

A lu suono de le campane

Viva viva le pupulane

A lu suone de li viuline

Sempe morte 'a Giacobine"[34]

 

 

La regia del sentimento religioso: catechismi, preghiere, Vangeli

 

Secondo l'opinione dei patrioti repubblicani, la Chiesa e l'ancien régime erano riusciti ad inculcare negli spiriti i pregiudizi ed il fanatismo ricorrendo "alla truffa" ed alla manipolazione particolarmente abile delle parole, dei segni, delle cerimonie ed alla costruzione dell'universo simbolico che le circondava. Da qui l'idea di combattere la battaglia contro i pregiudizi ed il fanatismo sul medesimo terreno dell'immaginazione, della mentalità, dei sentimenti. La nuova classe di dirigenti repubblicani comprese quanto fosse opportuno utilizzare la straordinaria carica di persuasione posseduta dal clero e cercò di mobilitarlo in proprio favore: a Napoli, fin dai primi giorni di gennaio la Fonseca Pimentel aveva invitato gli stessi ecclesiastici, "i quali han già la pratica della persuasiva popolare", ad impegnarsi nell'opera di propaganda.

Questo desiderio di utilizzare la religione ed i ministri del culti come strumenti di propaganda, testimonia la comprensione del presente che è propria della nuova classe dirigente: la chiesa della fine del Settecento era infatti, nel mezzogiorno, certamente l'unica struttura capillarmente radicata nella società civile.

Dal più sperduto parroco di campagna, al prete nuovo istruito in seminario, tutti i sacerdoti avevano una grande influenza sulle masse popolari, particolarmente permeabile alle loro argomentazioni; i nuovi ceti dirigenti si rivolsero quindi agli "operai della vigna del Signore", a quegli stessi pastori ecclesiastici che, nel decennio 1789-1799, dall'alto dei pulpiti avevano dipinto con i più neri colori l'avanzata delle armi francesi,  insinuando la convinzione che i giacobini fossero sovvertitori della religione, 'violatori' della proprietà e delle donne. Si trattava di utilizzare la scaltrita capacità propagandistica, che le gerarchie ecclesiastiche avevano raffinato in secoli di esercizio, per suscitare sentimenti di obbedienza, di fedeltà e di subordinazione nei confronti del nuovo regime.

E non fu senza esito: tra i caduti di piazza Mercato 13 ecclesiastici, tra di loro un vescovo e sei professori dell'Università; decine di ecclesiastici o ex ecclesiastici tra i rei di stato colpiti da confisca o da esilio.

Ma il tentativo di coniugare principi rivoluzionari e principi religiosi  non aveva scalfito minimamente il sospetto popolare nei confronti di francesi e giacobini, alimentato da una propaganda realista sapientemente orchestrata e dotata di una capacità di comunicazione e convinzione difficilmente eguagliabile.

L'insorgenza, è storia nota, assunse fin dall'inizio coloriture accesamente religiose, di guerra santa, soprattutto ad opera dei numerosi preti e frati che si misero alla testa degli insorti. Nel '99 la chiesa raccolse i frutti  del sapiente mutamento di rotta attuato a partire dalla Controriforma: con il Concilio di Trento il centro dell'impegno della gerarchia ecclesiastica si era spostato dalle città alle campagne. La sollecitudine verso i "rozzi", la divulgazione di una pietà facile ed esteriore, il fasto delle processioni, la commozione delle prediche, erano tutti elementi destinati a sedimentarsi in maniera massiccia nella sensibilità popolare: cominciò da allora quell'intreccio di fame e di fede che assumerà forme ampie e tragiche alla fine del XVIII secolo.

E' importante soffermarsi sull'uso della religione come mezzo di trasmissione delle parole d'ordine della rivoluzione: la propaganda di argomento religioso si differenzia dalle altre per una serie di motivi che ne fanno uno strumento privilegiato di comunicazione con le masse popolari, ostili alla Repubblica o, nel migliore dei casi, indifferenti. In primo luogo essa ha una funzione rassicurante, in quanto si pone immediatamente come tutela di valori universalmente accettati e tradizionalmente radicati nella sensibilità popolare, nel capovolgere l'immagine che di rivoluzione e rivoluzionari aveva dato la letteratura antigiacobina.

I numerosi dialoghi tra preti e popolani costituiscono un genere privilegiato della letteratura propagandistica: la struttura dei dialoghi si avvale della tecnica della domanda e della risposta, largamente usata nella prassi ecclesiastica. La stessa tecnica viene anche riprodotta nei discorsi scritti, affidata ai manifesti ed ai fogli volanti, con il vantaggio però per il propagandista, di fissare preventivamente l'oggetto e l'ordine delle domande.

Lo schema è classico: c'è un oratore che illustra i benefici del nuovo regime, ed un interlocutore, di volta in volta scettico, ironico o incredulo, ma comunque rappresentante per antonomasia del pubblico, del gruppo cioè di cui si intende conquistare il consenso. Lo scopo di questa forma di propaganda è sempre quello di rassicurare il pubblico, mostrandogli la validità e l'universalità di certi principi e trasmettendogli, in definitiva, nozioni nuove attraverso le antiche. Esemplare è, a questo riguardo, il continuo parallelo tra i concetti di libertà ed eguaglianza repubblicana e la carità cristiana; o tra il buon cristiano ed il buon repubblicano. Ma il ricorso alla religione serve anche, ed è importante sottolinearlo, a respingere interpretazioni 'estremistiche della libertà':

"Contadino = A proposito, ora che ci sarà la libertà potremo fare ognuno quello che vorremo?

Parroco = Adagio un poco! Questo non sarebbe libertà, sarebbe licenza, libertinaggio" Si deve obbedire alle leggi"

Allo stesso modo l'identità tra eguaglianza repubblicana e carità cristiana fissa molto bene i limiti, rendendo impossibile l'abolizione delle differenze sociali:

"Contadino= Approposito, saremo anche tutti eguali, ed io sarò uguale al signor conte, e molto più al fattore: non è vero?

Parroco= Sì e no. (…) la libertà consiste nell'obbedianza, nell'essere uguale a tutti gli altri come cittadini, potendo aspirare a tutti gli impieghi in forza del nostro merito, senza bisogno di essere benestante (…) consiste anche l'eguaglianza nella certezza che la legge non può punire né premiare più uno che un altro. Del resto poi l'opinione degli uomini non farà mai eguale il debole al forte, il ricco al povero, il dotto all'ignorante, né la legge stabilirà la piena eguaglianza tra il debitore ed il creditore; tra il contadino, il servo ed il padrone"[35]

 

Oltre al dialogo scritto, un altro genere preferenziale nell'ambito della letteratura educativa repubblicana fu il catechismo, un genere letterario o, se si preferisce, un antenato dei mass media, che era passato dalla tradizione della propaganda cattolica post-tridentina alla pedagogia politica della massoneria. Pur mantenendo la tecnica della domanda e della risposta, non prevede però il contraddittorio, e rappresenta perciò il superamento della fase propagandistica e l'avvento di quella apertamente educativa, organizzata e controllata dal governo, diretta a prevenire eventuali forme di dissenso attraverso una istruzione uniforme, generale ed il più possibile aproblematica, sul modello della didattica cattolica.

A Napoli, come altrove, si svolse un concorso per il testo del Catechismo nazionale: uno dei concorrenti, Stefano Pistoja, opponeva il suo a quello del vincitore, Onofrio Tataranni, perché "alla portata del popolo basso", " adatto alla sua maniera di pensare ed alla bassezza delle sue idee".

In realtà conteneva gli stessi difetti di tutta la propaganda giacobina: astrusità linguistiche ed affermazioni perentorie, che ne limitavano fortemente la circolazione.

Particolare importanza riveste il catechismo composto da Michele Natale, vescovo di Vico Equense che pagò con la vita la sua adesione alla Repubblica Napoletana, in cui viene ribadita l'identità tra i principi repubblicani e quelli religiosi:

Domanda = Cosa è la libertà?

Risposta = E' la facoltà che deve avere ognuno di fare e di dire tutto ciò che non è contrario alla legge.

D.= la libertà non consiste adunque nel fare ciò che si vuole?

R.= Se ognuno potesse fare tutto ciò che il suo capriccio gli detta, non ci sarebbe governo democratico ma anarchia. Ognuno deve rispettare la legge, e rispettandola fa ciò che vuole, perché esso stesso ha voluto la legge.

D. = Cosa è l'eguaglianza?

R.= E' il diritto che hanno tutti i cittadini di essere considerati senza alcuna distinzione o riguardo innanzi alla legge, sia che premi o che punisca

(…)

D.= Ma i beni non saranno comuni nel governo democratico?

R.= L'eguaglianza dei beni sarebbe contraria alla vera eguaglianza, perché l'uomo attivo ed industrioso dovrebbe dividere il suo travaglio coll'ozioso e col dissipatore. Nel sistema dell'eguaglianza si devono adunque rispettare le proprietà di ogni individuo"[36]

 

Gli esempi riportati mostrano da un lato lo sforzo che si compì per allargare la base del fronte repubblicano, dall'altro i limiti delle parole d'ordine, del linguaggio, dei contenuti che si intendevano diffondere tra le masse popolari; proprio sui temi della libertà e dell'eguaglianza appaiono più evidenti che altrove i timori di chi si proponeva di abbattere il sistema "dell'antico governo", ma non voleva o non poteva avviare un processo autonomo di lotta contro i vecchi centri di potere da parte delle masse popolari.

La scarsa risonanza della propaganda clericale filorepubblicana deve probabilmente attribuirsi, oltre che alla resistenza di parte del clero, all'improvvisazione ed alla contraddittorietà della politica propagandistica, che da un lato cercava di far accettare i principi repubblicani tramite la religione, anzi identificandoli con i principi della religione stessa, dall'altro non impediva o almeno tollerava una propaganda antireligiosa. Valga a titolo di esempio il testo del Credo repubblicano:

"Credo nella Repubblica Francese, una e indivisibile, creatrice della Libertà sociale e dell'Eguaglianza, credo nel Generale Buonaparte suo figliuolo, unico difensore e nostro, il quale fu concepito da gran Spirito, nacque da madre virtuosissima, patì sopra monti e colli, fu da tiranni vilipeso, discese dal Piemonte, il terzo dì risuscitò nell'Italia, salì in Mantova, ed ora siede alla destra del Gran Cairo capitale dell'Egitto, di là ha da venire a giudicare i potenti aristocratici; credo nello spirito delle Generalità Francesi e del Gran Direttorio di Parigi, la distruzione degli Emigrati, di una remissione alla tirannia, la resurrezione del diritto dell'Uomo, la futura pace, la Libertà, ed Eguaglianza. Amen"[37]

Caratteristiche diverse ha la propaganda religiosa filo-repubblicana in dialetto: essa si carica di valori affettivi; le premesse da cui muovono le argomentazioni degli oratori si adeguano alle convinzioni popolari, ed affermano la tutela della continuità di certi valori, assimilati dal popolo, dal governo passato a quello repubblicano. Tipica a questo riguardo la spiegazione del Vangelo in dialetto: le parole della Scrittura offrono un punto di partenza indiscusso, così come nell'ambito del discorso potranno essere citate come argomento d'autorità, per rafforzare enunciati difficilmente accettabili senza resistenze. In dialetto, l'argomento religioso è usato indifferentemente da laici o da ecclesiastici, ma è evidente che nel secondo caso la forza persuasiva ne risulta aumentata, sia perché l'oratore è persona autorizzata all'esegesi dei testi sacri, sia perché l'intenzione propagandistica non è più esplicita ma dissimulata sotto le forme consuete della spiegazione del Vangelo o di altri discorsi istituzionali:

" Puopolo mio bello, fatte ccà: facimmo na chiacchierata all'uso nuosto, e bedimmo chi è Cristiano e chi Abbrejo marditto. Dice no Profeta dinto alla Scrittura Sacra cheste parole: Propter injustitias transferuntur Regna de gente in Gentem: oh! Mmalora! E chesta non è lengua nosta! Mo, mo, aggiate pacienza. Chesto vene a dicere ( e lo ddice proprio Dio in Perzona pe bocca de chillo profeta) vene a dicere, ca pe le contrajustizie passano li Regne de mano a mano, de Gente a Gente, e da na nazione a n'auta. E bò dicere, ca Dio quanno vede che se fanno le contrajustizie ch'avimmo ditte, leva lo Regno a na Nazione, lo passa a n'auta. Ntennite? Ora venimmo a nuje (…)"[38]

 

Non raramente si delinea la disponibilità della propaganda filorepubblicana a deformare l'informazione, accettando di porsi sul piano della propaganda avversaria pur di ottenere il consenso popolare. Per rintuzzare, ad esempio, gli argomenti della propaganda reazionaria che dipingeva i Francesi come sovvertitori della religione ed esortava alla resistenza armata assimilata a lotta per la difesa della fede, i giacobini, invece di dimostrare l'infondatezza di tali affermazioni controbattevano accusando di eresia gli Inglesi, alleati della monarchia:

"L'Angrise, che roba songo? (…) Chisse songo vere aretece dichiarate da la santa Chiesia da tanto e tanto tiempo e pe tanta cufecchie lloro che manco me ll'arricordo; songo vere scommunicate, che pe' ghiusta regola nuje nun ce potariamo manco parlà; e sapimmo ca se traseno dinto a lo sieggio o dinto a lo tresoro quanno Santo Jennaro ha da fa lo miracolo, Santo Jennaro ngrogna, e stateve buone! Addonca, pecchè nce volevano aunì co' l'Angrise, ca so' vere aretece, e nce voleno fa accidere co' li Franzise che so' cristiane comm'a nuje? 'Nzomma, non se commatteva pe' la Fede, ma contra la Fede, pocca jevemo aunite co' l'Angrise aretece contra li Franzise cristiane"[39]

Come si vede non si discutono le premesse della propaganda reazionaria e clericale, che pur sono false  ed a cui sarebbe necessario rispondere che la guerra non ha nessun rapporto con la religione e la difesa della Santa Fede è solo un pretesto per mobilitare le masse; si sostiene invece che i Francesi non possono attaccare la religione perché sono essi stessi cattolici, mentre gli Inglesi non possono difenderla perché sono eretici.

L'intenzione di risvegliare un consenso basato molto più su aspetti emotivi che razionali diventa evidente quando l'oratore non esita a ricorrere al frasario popolare, assumendone espressioni elogiative del tipo "guappe" e "guappone" riferite ai Francesi, che vengono inseriti così in una categoria di gente in gamba, in cui rientra anche "chillo guappone de Santo Jennaro".

Ma l'incidenza di questa propaganda fu tutto sommata scarsa; essa naufragò nell'impossibilità di dare una risposta concreta alle obiezioni insistenti ed irriducibili, formulate dall'antagonista popolare nei dialoghi, o simulate dall'oratore nei discorsi; obiezioni che riguardavano sempre la reale consistenza dell'eguaglianza ed i vantaggi della libertà:

" che bene a gnefecà Aguaglianza si uno magna quattro o cinco cose a tavola, e n'auto sta jajuno?"

La risposta data dalla propaganda è invariabile: la ricchezza, non più dovuta ai privilegi di nascita, è ora motivata dalle capacità e dallo spirito di sacrificio di chi l'ha saputa conquistare. Il consenso del pubblico dovrebbe scaturire dal riconoscimento delle possibilità, aperte a tutti i poveri meritevoli, di diventare ricchi.

In questo senso, tentando di coinvolgere un pubblico subalterno, e destinato a rimanere tale anche in una società promozionale, con argomenti cui era sensibile solo la classe emergente (borghesi, nobili non primogeniti, ecc.) la propaganda in dialetto rivela sostanziali affinità con quella in italiano di analogo argomento religioso. In definitiva essa non riesce a modificare la diffidenza del popolo verso i giacobini, identificati con i ricchi ed i potenti, sostanzialmente estranei alla cultura ed agli interessi popolari.

Ben altri effetti doveva sortire al propaganda clericale controrivoluzionaria, che per prima si era avvalsa del dialetto, e che usava argomenti assai più elementari ed efficaci di quelli repubblicana:

"Sti marijule mò vanno dicenno,

sti lupune vestute d'agnielle,

<<No tremmate, ca simmo fratiello!>>

Auh! 'na sferra, e da' dinto a la panza!

Che mannaggia!

[…]

Cu la chiesa sti becchi curnute

Hanno fatto a chi cchiù scippa scippa,

e nisciuno le chiava a la trippa

'nu spuntone o nu punno de lanza?

Che mannaggia!

Che mmalora, de pazze che site!

Tutte chine de fagole e 'mbroglie,

arrunzate le figlie e le moglie,

manco a Dio portate crianza.

Che mannaggia!"[40]

 

La propaganda antigiacobina, riattivando le credenze e le prevenzioni che aveva essa stesse create, doveva dare i suoi frutti sottraendo il consenso delle masse alla nuova classe politica

 


La regia dell'emotività popolare: simboli e feste civili

 

La Rivoluzione Francese non inaugura semplicemente l'epoca del governo del popolo, del rinnovamento radicale delle istituzioni politiche. Con la rivoluzione è la stessa politica, in quanto arte di conquistare il consenso intorno ad un obiettivo, che assume un nuovo stile. Conferirle una dimensione di massa è infatti la molla che fa scattare il processo di dilatazione dello spazio da essa tradizionalmente occupato. Accanto alla ragione, ora l'emozione, il sentimento, l'immaginazione, la mentalità collettiva rientrano tutte in una sorta di officina da cui dovrà uscire un uomo riplasmato sin nelle pieghe più nascoste della sua umanità. Ma per un simile progetto la scuola, rivolta ai giovanissimi, si presenta inadeguata ed insufficiente; essa deve essere accompagnata dall’educazione permanente, dall’educazione degli adulti

Come garantire il consenso attivo delle masse popolari, cancellando dalle loro coscienze l'impronta che secoli di dispotismo vi avevano impresso? La legislazione repubblicana poteva distruggere la costituzione dell'ancien regime nelle sue articolazioni esterne, ma non estirparne le radici che si erano alimentate nello spazio nascosto delle anime e delle menti, nelle abitudini ostinate, nei costumi che condizionano ed orientano gli atteggiamenti degli uomini, con un'azione segreta, inconscia e perciò stesso inattaccabile. Al valore normativo della legge doveva affiancarsi quello formativo dell'educazione nazionale che dappertutto, con minore o maggiore forza, è espressione dell'esigenza di una riforma morale e intellettuale del popolo.

Non esiste rivoluzione politica senza rivoluzione culturale, quest'ultima con scansioni e tempi suoi propri; nel 1799 la società politica ha accelerato improvvisamente i suoi tempi di trasformazione mentre l'allineamento delle coscienze, delle mentalità oppone ancora una resistenza tenace. Il problema è dunque quello di colmare questo dislivello, di amministrare saggiamente questi ritmi sotterranei, orizzontali, senza lasciare nulla al caso; è necessario ripercorrere il cammino delle coscienze, modellare il percorso che dalle impressioni conduce alle idee, impadronirsi dell'immaginazione per radicare nelle mentalità i valori che sostengono le istituzioni politiche.

L'ansia della rinominazione di strade, l'uso reso obbligatorio delle coccarde, l'innalzamento degli alberi della libertà, le feste civiche, la condanna dello sfarzo, la foggia degli abiti, la lunghezza dei capelli, ecc., non rappresentano aspetti marginali, ma al contrario, rientrano tutti nel vasto campo riservato all'educazione:

"Niuna cosa è sì piccola che volger non si possa ad utilità della repubblica"

Tra le strutture pedagogiche fondamentali, in tutti i progetti di educazione nazionale, compaiono le feste civiche, nell'accezione di festa come manifestazione immediata e diretta del popolo. Rousseau aveva offerto una critica feroce della corruttela e finzione delle feste dell'ancien regime, vagheggiando al contrario le feste del popolo, feste in cui il popolo fosse spettatore di sé stesso, dove vedersi ed amarsi negli altri, sulle pubbliche piazze e senza lo sfarzo di eccessivi addobbi. La festa quindi assume il carattere di  commemorazione di eventi, di programma politico, di esortazione civica.La festa rivoluzionaria rappresenta una rottura anche della tradizione cinque- seicentesca della festa popolare, soprattutto con i carnevali, che rappresentavano il tempo dell'infrazione e del disordine, dell'infezione e del miscuglio pericoloso; la licenza, la burla, l'oscenità, i lazzi erano i materiali del discorso carnascialesco. Ma la festa popolare sfrenata aveva sempre avuto una funzione politicamente integrativa: la tensione popolare doveva scatenarsi per qualche volta, per rientrare e ricomporsi nella normalità dei giorni eguali della miseria.

Per i nuovi governanti repubblicani i carnevali e le feste popolari  rappresentarono residui di epoche di barbarie e di ignoranza, contrarie anche all'ordine divino, fondato sulla successione di sei giorni lavorativi: la festa non può essere altro che commemorazione del tempo perduto oppure celebrazione del tempo storico.

Diventava impellente la necessità di riassorbire la festa all'interno del discorso educativo, di renderla anzi efficace strumento di propaganda: per essa il discorso educativo sceglierà un linguaggio intessuto di simboli, di segni, di allusioni al mito neoclassico. Nella festa rivoluzionaria l'educazione si riserva il campo delle emozioni, dei sentimenti e delle impressioni; essa vuole ispirare nuovi costumi, imprimere un marchio indelebile sull'animo popolare, istillare una fede incrollabile nell'autorità e nelle leggi; vuole - c'è la tentazione di dire - manipolare la coscienza popolare. I valori nuovi che ispirano la costituzione devono tradursi in linguaggio capace di conquistare l'immaginazione popolare:

"FIGLI DELLA PATRIA

Le insegne degli assassini, degni ministri dei fuggiti tiranni, sono state già consunte dalle fiamme. Possa così esser dallo sdegno consunta nel cuore di ognuno l'infame loro memoria![41]

Più delle parole i simboli sembrano in grado di mettere in moto questo processo: il simbolismo più diffuso fu quello del fuoco come strumento di purificazione di una realtà infestata dai germi della tirannide e sotto quest'impeto le cerimonie di bruciamento dei simboli della tirannide si susseguono dappertutto, regolate ed orchestrate da un cerimoniale denso di significato, come per i roghi delle bandiere prese agli insorgenti:

"Domenica fu finalmente eseguita la pubblica festa  pel brugiamento delle bandiere vinte in varie azioni sugli insurgenti, e si spiegarono la prima volta all'aura le bandiere donate dal Governo alla Guardia Nazionale.

Intorno all'albero piantato nel largo del Palazzo Nazionale si alzava un basamento di figura quadrilunga, destinato per l'allocuzione al Popolo, e per incenerirvi le cennate bandiere […] la parte inferiore era adornata di un trofeo continuato in bassorilievo. Ne' due lati lunghi della superiore erano due vittorie per parte […] Nel centro sorgeva l'albero della libertà cinto ad una certa altezza dei sei fasci consolari; ornato più sopra da fasce tricolori, nelle quali leggevasi il sacro nome di LIBERTA' e dalle quali sporgevano in giro lunghi rami di ulivo, di quercia e di lauro, e da mezzo ad esse la bandiera nazionale; verso la cima l'un sull'altra a piccole distanze due corone civiche, ed una trionfale, infine il beretto repubblicano sull'apice con diversi nastri tricolorati, che sventolavano"[42]

Si trattava di controllare quanto di inconscio, di sovversivo c'era in certe autorappresentazioni popolari, di fornire al popolo una nuova immagine di sé stesso, adeguata ai nuovi valori rivoluzionari.

E la prima vittima di questa riforma sono le maschere del teatro italiano, via via proibite nelle città italiane con il sopraggiungere della Rivoluzione. Il Pulcinella che indossa la sacca bianca dei facchini e nasconde il volto dietro un adunco naso a forma di becco gallinaceo, ha da sempre incarnato l'inquietudine popolare, il sovversivismo latente che si ritagliava uno spazio indipendente dall'ordine costituito, sguarnito di capacità di autocontrollo e fomite di sovversione  . Si delinea un tentativo tutto moderno di suggerire al popolo il culto verso sé stesso al di fuori di qualsiasi cornice cristiana, dinastica o carnevalesca: la nuova politica cerca di mettere in scena la sovranità popolare.

Cosa questo significò per la Repubblica Napoletana?

Il "Monitore napoletano" riporta la cronaca dell'innalzamento di un albero della libertà:

"Domenica fu innalzato l'albero della libertà prima nella Conciaria, poscia nel Mercato a spese di quei capo -lazzari. Il generale Championnet a cavallo col suo stato maggiore, ed una deputazione del nostro Governo si portò ad assistere all'uno ed all'altro. Al Mercato si trovò per loro innalzato sontuoso palco, dove però indistintamente salì gran turba di cittadini. La gran piazza, i vicoli che vi spuntano, tutti i balconi finestre terrazze, che vi riguardono, erano zeppi di giojosa moltitudine di ogni età e di ogni sesso. Una scelta orchestra rallegrò la funzione, ed il presidente Laubert con bella popolar arringa rammentò al Popolo il suo Massaniello, e spiegogli come la presente rivoluzione altro non è, che quello stesso che far volle, e pe' tradimenti della Tirannia non poté eseguire Massaniello. Scelti vini forestieri e dolci erano ai piedi dell'albero. Altri furono copiosamente dispensati nel palco. Al generale fu presentato un canestro di colombi, de' quali uno con uno scritto di ringraziamento della assicurata libertà; il Generale fece dispensare gli altri, ritenne e conservò per sé quello solo. (…) i Lazari ne' trasporti della loro gioia (…) accompagnarono a migliaia alla propria abitazione in faccia al Palazzo Nazionale esso Generale, che ad accrescere il giubilo, e la sontuosità della festa, fece loro gettare non piccola quantità di monete"

Il nuovo potere, nella sua ansia di rinnovamento totale, non sa sbarazzarsi del peso dei vecchi instrumenta regni: le imbandigioni, la distribuzione di monete fungono da risarcimento fittizio per la penuria quotidiana, per la sottoalimentazione secolare. Ed il marchese de Sade, a Napoli trent'anni prima, era stato cronista fedele delle feste borboniche:

"Assistetti (…) a una 'cuccagna', uno degli spettacoli più selvaggi che mi fosse mai capitato di vedere: un enorme palcoscenico grossolanamente addobbato, sul quale era stata ammassata una quantità impressionante di roba da mangiare, polli oche e tacchini crocifissi con chiodi e che, con le loro convulsioni, sembravano divertire immensamente la plebe in attesa dell'epico momento destinato al saccheggio(…) cos'era tutto l'insieme se non il pretesto per aizzare la selvaggia voracità di un popolo affamato? Se è possibile giudica un paese dai suoi gusti, dalle sue feste e dai suoi divertimenti, quale opinione ci si può fare di questo popolo affamato? Colpa del Borbone il quale è convinto che soltanto simili svaghi  possano allontanare il pericolo di una rivoluzione"[43]

 

 

La vittoria della controrivoluzione: invettive e  processione di santi

 

Con la sconfitta della Repubblica, i primi provvedimenti del governo restaurato furono volti tutti alla distruzione delle insegne e dei simboli della rivoluzione. Diveniva essenziale cancellare ogni segno della "peste giacobina", ridurla ad un tragico episodio, che era stato tuttavia incapace di intaccare il felice legame di fedeltà che saldava sovrani e sudditi.

Le insegne reali, le croci, i codini nobiliari riprendono il loro posto alla luce del sole, a simboleggiare che la tempesta rivoluzionaria è finita e torna la quiete monarchica. Si trattava in definitiva di restaurare l'antica trama di dominio sulle masse popolari, non più però inerti, ma risvegliate e sovreccitate dalla partecipazione agli ultimi, sanguinosi, eventi. La riattivazione dei vecchi canali di trasmissione del consenso era certamente prioritaria per il governo restaurato, ma a questo compito si aggiungeva la necessità di rendere la parentesi giacobina orribile nel ricordo popolare, vera e propria infezione demoniaca, sanata solo dall'intervento di Dio e del Monarca. Il giacobinismo, "mostro divoratore dell'Umanità", viene costantemente raffigurato nell'iconografia controrivoluzionaria con attributi demoniaci , rivelando così il carattere ferocemente diffamatorio di questa propaganda, mai critica riflessiva e puntuale, ma espressione di antigiacobinismo viscerale.

Il tema è sempre lo stesso: i giacobini hanno perso perché ladri, assassini, immorali. Non si tenta mai un giudizio politico del loro operato: la loro sconfitta è il meritato castigo per aver infranto le regole di un mondo ordinato da Dio.

L'intenzione diffamatoria sceglie, non casualmente, di mettere in ridicolo i simboli repubblicani: l'albero della libertà raccoglie una ricca messe di invettive in tutti i componimenti dedicati al sovrano restaurato:

"L'albero segno

d'Idolatria

Or di follia,

segno sarà

oppure

"Che credevivo di fare

Raccapriccio! In rammentare,

d'adorare un tronco stecco,

steril legno tutto secco

a che dico senza frutto

fronde e fior ci manca tutto,

e voi tutti in sua presenza

fate a quello riverenza."[44]

Né viene risparmiato il berretto repubblicano

"E la coppola sì rea

Che la palma la cingea

Che per vostra scemità

L'appellaste libertà"

Gli stessi temi si ripropongono con maggior forza nelle invettive in dialetto: "st'albere senza radice / sta coppola senza capa"

Compaiono gli intenti calunniosi nell'accusa di viltà per la mancata difesa del proprio simbolo:

"Un tronco infame, insulso

alzasti con orrore

ma poi con disonore

si vide diroccar"[45]

Neanche le feste repubblicane sfuggono all'intento diffamatorio; esse vengono rappresentate come immondi festini, in cui ogni licenza era permessa:

"Posto l'alber ogni tanto

si ballava, si cantava,

ed ognuno si sfrenava

senza ombra d'onestà"

La funzione di sollecitazione del consenso delle feste veniva presentata come inganno perpetrato ai danni del popolo:

"Sotto l'alber ogni tanto,

si faceva un festino,

e così il Giacobbino,

si credea di corbellar"[46].


Il rituale festivo, le danze intorno all'albero della libertà, venivano descritte come una gigantesca truffa intessuta di:

"false persuasioni […] e di quei bugiardi simboli […] cui prestar doveasi da ognuno, con mimiche rappresentazioni, ubbidienza e rispetto"[47].

Ma il potere restaurato utilizza a sua volta le feste come rappresentazione del tripudio popolare per il ritorno del re:

"Ieri sera cominciò un triduo di lumi a Sant'Antonio con anfiteatro fatto al largo di S. Lorenzo […]; è accompagnata questa illuminazione dai lumi ai balconi e finestre di tutta la strada, e banda di musica in mezzo al largo[…] questa mattina si è fatta girare la statua del santo scortata da guarnigione di realisti, i quali hanno preso il pennacchio verde e bianco; fra essi si contavano otto monaci che precedevano armati di sciabola ma coll'abito della loro religione, seguiva la banda con una pattuglia dello stesso corpo"[48]

La coreografia liturgico - festiva inserisce nella processione, cioè nel percorso solennizzato, ritmato da preghiere e cantici, i nuovi simboli (monaci con le sciabole, realisti con i pennacchi) destinati a commemorare i più recenti avvenimenti; ma soprattutto ad imprimere nella memoria popolare l'immagine del trono e dell'altare, che da soli hanno sconfitto gli empi.

Tutta le letteratura reazionaria fornisce compatta l'identica versione: la riconquista del regno non era stata una operazione politico - militare ma una sorta di prodigio leggendario, che mescolava insieme la lotta di sant'Antonio con san Gennaro, la natura diabolica dei giacobini, la potenza magica del cardinale Ruffo   e, non ultimo, l'intervento provvidenziale dello Spirito Santo.

I toni leggendari della narrazione costruiscono il mito della resurrezione monarchica dal contagio rivoluzionario; per le decine di migliaia di uomini delle provincie che avevano rappresentato il nerbo dell'armata sanfedista non c’è posto in scena.

Non ci sarà castigo per le atrocità commesse durante l'avanzata controrivoluzionaria, ma non ci sarà nemmeno soddisfazione delle aspettative che avevano spinto quest'enorme massa umana a marciare sotto le insegne della Santa Fede.

 



[1] Fondamentale per qualsiasi lavoro sulla Repubblica Napoletana la poderosa raccolta curata da Mario Battaglini Atti, leggi, proclami ed altre carte della Repubblica Napoletana 1798-1799, Chiaravalle, Società Editrice Meridionale, 1983, 3 vv., in particolare per le fonti del presente lavoro cfr. le pp. 1891-2027.

[2] E' stato avviato, con un finanziamento della Regione Campania, un progetto di ricerca per la preparazione di un repertorio di fonti inedite del 1799 in Campania, che vede protagonisti giovani ricercatori coordinati dalla Soprintendenza Archivistica. Le fonti oggetto di indagine, oltre quella dell'Archivio Storico del Banco di Napoli,  saranno prevalentemente comunali, ecclesiastiche e private.

[3] P. Macry, Napoli 1799. Giù le mani dalla rivoluzione in <<Corriere della Sera>>, 17/11/1998

[4] Lettera di Maria Carolina al cardinale Ruffo  (8 maggio 1799) in B.Croce, La riconquista del regno di Napoli nel 1799. Bari, Laterza, 1943.

[5] Sulla situazione dei banchi cfr. R.Filangieri di Candida, I Banchi di Napoli dalle origini alla costituzione del banco delle Due Sicilie (1539-1808). Napoli 1940; F. Nicolini, I banchi pubblici napoletani ed i loro archivi. Napoli 1950; C. Albanese, Cronache di una Rivoluzione. Napoli 1799. Milano, FrancoAngeli, 1998, pp. 27-29.

[6] A.M.Rao, La Repubblica cit., p.25.

[7] P. Macry, Napoli 1799. Giù le mani dalla rivoluzione cit.

[8] G. Carleo, Un'austriaca cit., p.24.

[9] Satira contro i giacobini, tragicommedia rappresentata sul Teatro di Napoli, l'anno 1799, Napoli, s.d. in Atti, leggi, proclami cit., p. 1888.

[10] Orazione patriottica recitata in Napoli in occasione del glorioso innalzamento dell'Albero della Libertà, sul largo del Palazzo Nazionale, Napoli, 29 gennaio 1799 in Atti, leggi, proclami cit., p. 1937

[11] B. Gagliano, La fuga dei tiranni, in Giornale Patriottico della Repubblica Napoletana, dove si trovano poste in ordine tutte le più belle produzioni patriottiche, date finora in luce nei fogli volanti, Napoli 16 piovoso, in Atti, leggi, proclami cit.

[12] N. Neri, Carattere del patriota, Napoli, s.d. in Atti, leggi, proclami cit.

[13] Allocuzione al popolo Napoletano nello stabilimento della sua Repubblica, Napoli s.d. in Atti, leggi, proclami cit.

[14] L'adeguamento dell'oratore alla lingua dell'uditorio comporta il riconoscimento del sapere diverso di cui è portatore il destinatario; il mutamento di linguaggio non si risolve in una traduzione, poiché è impossibile servirsi delle argomentazioni tipiche del discorso celebrativo, richiedendo l'adozione di un repertorio discorsivo adeguato al dialetto.

[15] Antonio Giacomo Gualzetti, Discurzo primmo, addò se parla de li primme Govierne de lo munno e comme venettero li Rri, Napoli 17 fiorile, opuscolo in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso nell'Italia giacobina, Messina - Firenze, Casa editrice G. D'Anna, 1981, p.38 n.10.

[16] G. De Simone, Parlata de core de Gaitano De Simone a tutt'i cittadini, s.i., foglio volante, in Atti, leggi, proclami cit.

[17] Pe li guaje e la contentizza noste. Canzona, Napoli, s.d. in Atti, leggi, proclami cit.

[18] La ripetizione è la figura principale, che sostiene ed organizza l'argomentazione anche a livello sintattico, sostituendosi ai nessi logici, indispensabili invece per l'italiano.

[19] Ngiuriata de la Coccovaja de Puorto all'ex Regina, Napoli, s.d. testo in Giornale Patriottico, V, 171 in Atti, leggi, proclami cit.

[20] Mineco Piccinni, Li patriote apposticcio de lo Novantanove, Napoli s.d., foglio volante in Atti, leggi, proclami cit.

[21] Sergio Fasano, Parlata pe chille che non ntennono lo Toscanese e nfra l'allegrizze stanno comme l'asene mmezzo a li suone, Napoli  3 febbraio 1799, testo in Giornale patriottico, II, 3 in Atti, leggi, proclami cit.

[22] Antonio Giacomo Gualzetti, Chilleto che no tiempo arreto se chiamava mmemnorejale a li cetatine rappresentante lo govierno provesorio e propriamente a li ciuche smargiasse de lo potere esecutivo, Napoli 10 sciorile anno settemo (29 aprile 1799), opuscolo in Atti, leggi, proclami cit..

[23] G. Scarano, Sonetto, in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p.123-124.

[24] La festa che fanno li napoletani, per la vittoria riportata dalli bravi guerreggianti, del Fedelissimo Vassallo Sac. C. Jannino in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p.69

[25] A gloria di Dio, ed onore delle vittoriose truppe del nostro Re Ferdinando IV - Lo sfratto de' giacobini, dell'Umilis. e Fedelis. Vassallo Tommaso Curcio in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p.69

[26] B. Croce, Canti politici del popolo napoletano, Napoli 1892, p. L.

[27] Sbafata che fa uno de chilli Napolitani che nfì a mò s'ha fatto e s'ha voluto fa lo fatto sujo, de vierze Toscane, e Napolitane, e a comme vuò, e comme voglio. Fatta a Napole l'anno 1799, cit. in A. Cimbalo, La lunga marcia del cardinale Ruffo, a cura di M. Battaglini, Roma 1967, p. 107.

[28] A gloria di Dio cit.

[29] La festa che fanno li napoletani cit.

[30] Lo ttuosseco de li Giacobe, sbafata co lo Core, che fanno co chilli li Realiste 'mmiezo Mare, di Aniello Agostino in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p. 71.

[31] B. Croce, Canti politici cit., p.XLIX.

[32] Ibidem, p.XLVI- XLVII

[33] Ibidem, pp.L, LI.

[34] In B. Ciccotti, Il brigantaggio in Basilicata dai tempi di Fra Diavolo sino al 1811 e storia particolare di Palazzo San Gervasio, Napoli 1873.

[35] L. Martini, Dialoghi tra un curato ed un contadino, in Giacobini Italiani, a cura di D. Cantimori e R. De Felice, Bari 1964,vol. II, pp. 419-422.

[36] Michele  Natale, Catechismo repubblicano per l'istruzione del popolo e la rovina dei tiranni, Napoli 1799, cit. in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p.48-49, 103-107.

[37] Simbolo repubblicano, s.i. in Atti, leggi, proclami cit.. p. 2012.

[38] Michelangelo Cicconi, Spiega de lo santo Evangelio a lengua nosta, Napoli s.d. in Atti, leggi, proclami cit., p. 1954.

[39] Ibidem

[40] Napole a li Franzise, manoscritto in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p.142.

[41] Discorso recitato per ordine dal cittadino Vincenzio Russo di Palma nella festa nazionale del dì 30 fiorile anno 1° della repubblica Napoletana. Napoli 19 maggio 1799 in Atti, leggi, proclami cit., p.1950.

[42] Il Monitore Napoletano 1799 a cura di Mario Battaglini, Napoli, Guida editori, 1974, pp. 577-578.

[43] Donatien - Alphonse - Francois, marchese di Sade, Viaggio a Napoli, inverno 1755-56 in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p. 67.

[44] In lode dell'augusto monarca Ferdinando IV - Miserere a' giacobini dell'Umilis.  e Fedelis. Vassallo L. Amisierro in M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p. 80.

[45] Supplica del Popolo Chiaiese, dell'Umilis. e Fedelis. Vassallo della M.V., P.G. da S. Giuseppe, Agostiniano Scalzo M.C. Maietta - M. Sessa, La costruzione del consenso cit., p. 80.

[46] La festa che fanno li napoletani cit.

[47] A. Cimbalo, La lunga marcia cit., p. 29.

[48] Carlo de Nicola, Diario Napoletano (1798-1801), al giorno 31 luglio 1799.